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rato dal vaiuolo, cogli occhi bianchi, era livido di minacce; e il ragazzo si sentiva crollare tutto d’intorno, la chiesa, il proprio granaio, i muri del seminario, che non bastavano nemmeno essi a seppellirlo, a nasconderlo per sempre nella vergogna di seminarista scomunicato.
Fu l’ultimo, tormentoso sforzo della sua volontà; quindi sporse risolutamente il busto, arrivò a toccare il pavimento colle mani e ritirando adagio, uno per volta, i piedi dallo sportello si trovò in mezzo della navata. La tenebra vi era cresciuta: nella cappella a sinistra del confessionale un lucignolo mandava entro uno di quei vasetti azzurrini fino a lui un tenue filo di luce, ma la sua attenzione fu subito attratta dal bagliore dell’altra navata laterale, ove le ventiquattro torce bruciavano ancora intorno al feretro. Rimase lungamente in piedi immobile, ascoltando; le lampade dell’altar maggiore splendevano come due carbonchi, il silenzio sacro, tiepido della vasta chiesa, aromatizzato dai fiori morenti intorno alla morta, aveva una solennità inesprimibile; vi si sarebbe udito sonoramente, a qualunque distanza, il soffio di un respiro. Appena fatto il primo passo, il suo rimbombo lo arrestò: allora non osando traversare la grande navata centrale, in punta di piedi, senza respirare, risalì fino al fondo di quella verso la porta, strisciò come un’ombra nel muro e arrivò sotto l’altra. Il feretro vi faceva in mezzo una aiuola ardente, fiorita, di un incanto stupefacente nell’ombra. Le torce piantate su alti candelabri dorati bruciavano con fiamme quadrilingui, di un colore rossastro, abbassandosi tratto tratto come sotto il battito di un’ala invisibile, mentre i pesanti panconi neri parevano chiuderle con una barricata di guerra, e in alto il feretro