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in orazione i cadaveri, quando restavano una notte nella chiesa. Chi sarebbe rimasto in tal caso presso il feretro, poichè nella chiesa non v’era più che don Camillo col sacrestano? Vi avrebbe egli durato fino al mattino? Evidentemente, se veglia doveva esservi, non sarebbe finita prima, ma la notte sarebbe stata ben lunga. Gli pareva impossibile che don Camillo, noto a tutta la città per la mollezza delle sue abitudini, potesse resistere in tale pio esercizio: poi egli non aveva avuto colla morta nessun vincolo. Un altero e doloroso sorriso sfiorò le labbra secche del ragazzo a questo confronto fra sè stesso e il ricco parroco di Sant’Agostino: nessuno della città, nemmeno la contessa madre, aveva indovinato la secreta, indefinibile relazione di lui, miserabile ragazzo morente di fame e di tristezza, con quella incantevole fanciulla moribonda di freddo e d’inappetenza fra tutti gli splendori della ricchezza. Essi soli si erano intesi in quella prima occhiata, senza parlare salutandosi impercettibilmente come due fratelli. Quindi egli aveva sentito giorno per giorno la sua agonia, aveva pianto quando ella piangeva, si era destato ai suoi soprassalti, aveva trasalito a tutti i suoi spasimi.
Un amaro orgoglio lo faceva adesso pensare astiosamente a don Camillo, il parroco ricco, dalle maniere effeminate, che veniva di notte a raschiare avaramente la cera delle torce di una morta. Non aveva dunque cuore colui? Avrebbero mai ragione i miscredenti, quando accusavano i preti di fare un mestiere del loro sacerdozio?
Ma in mezzo a tutto questo tumulto di pensieri lo colpì la voce di don Camillo nella sonorità echeggiante della chiesa:
— Dio! ma si soffoca tra questi fiori — aveva esclamato tossendo potentemente.