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irrevocabili, gli si allargò adagio nel cuore. Finalmente il sacrestano fece l’ultimo giro prima di chiudere la chiesa, i grandi catenacci striderono, il parroco dalla sacrestia tornò al feretro e si rimise a spiccare i grumi della cera colata lungo le torce, mentre l’altro raschiava quella caduta per terra.
Allora Giannino arrischiò di rimuovere un lembo della tenda, ma siccome il confessionale stava dirimpetto al pilastro, non vide nulla; solamente indovinò dal pallore di un riverbero in alto che intorno al feretro la maggior parte delle torce era stata spenta.
Per quanto conoscesse già questo uso economico delle chiese e lo trovasse ragionevole, in quel momento gli fece male come una profanazione del quadro, nel quale la morta giaceva. Aveva una fretta convulsa di uscire, ma dovette attendere ancora lungamente. I due si attardavano nella bisogna: ogni tanto si udiva un suono fesso della pentola, cui mutavano luogo gittandovi dentro i grumi della cera, poi uno stridore del rampichino sui mattoni, mentre nella luce sempre più pallida i fiori morenti accrescevano l’intensità dei proprii profumi. D’un tratto Giannino provò un sussulto così terribile che quasi quasi sbattè colla testa nel dossale: egli non ci aveva ancora pensato; perchè? Come aveva potuto non pensarci? Era possibile che ciò non accadesse in un mortorio come quello? Si ricordò che anche nelle case più povere si faceva sempre la veglia al cadavere, quindi tutte le sue idee si confusero in un attimo. Una certezza istantanea, soffocante, come se lo avesse già saputo anteriormente, dimenticandolo nel modo più inesplicabile, gli tolse il respiro: doveva essere così, era impossibile che non fosse così! Eppure nella sua inesperienza di chierico non lo sapeva davvero se qualcuno vegliasse