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sì lenta, vestita di chiaro, col viso bianco dentro l’aureola dorata dei capelli. Avrebbe voluto conoscere il suo nome, ma quando lo seppe gli parve volgare, Tecla, perchè sentì dolorosamente l’impossibilità di aggiungervi un diminutivo; quindi ascoltando, talvolta chiedendo imprudentemente, seppe il resto. Era l’unica figlia del conte Naldi morto tisico dopo pochi mesi di matrimonio colla contessa Crivelli. Tutta la città s’interessava del caso pietoso, perchè i più illustri professori avevano già dichiarata perduta ogni speranza.

Solo la madre colla sublime assurdità dell’amore confidava sempre.

Ma gli esami gli caddero addosso nella prostrazione fantasiosa di quel sogno, dentro il quale oramai rimaneva chiuso, senza avere ancora potuto rendersene un conto abbastanza chiaro. Egli sapeva solo di amarla con tutta la forza dell’anima dal momento che il suo pensiero si perdeva affascinato dietro di lei. La notte ed il giorno, nel silenzio delle scuole o nelle solitudini del proprio granaio, vedendo sempre la sua esile figura di fanciulla passare lentamente cogli occhi cilestri, pallidi di quello stesso smarrimento, che si sentiva nel cuore.

— Merlini, che cosa avete dunque da essere sempre così intontito?

Lo sgridava talora la voce aspra del professore, mentre gli altri ridevano intorno. Egli si turbava, ma nella purezza della propria coscienza non credette nemmeno di aprirsene col confessore.

Quell’anno gli esami andarono meglio, poi restò ancora due giorni in città per tentare di vederla, e la terza mattina ripartì a piedi per il villaggio. Là si ammalò. Un tifo, forse dovuto all’insalubrità del pozzo di casa, lo tenne due mesi tra la vita e la morte: il medico lo aveva spacciato, il parroco