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azzurri, rapidi e languidi, colle gambine penzolanti e nel lungo becco roseo un insetto verde.

Olga Petrovna, respinta dal calore intenso di quell’atmosfera, s’arrestò sotto la portiera restandovi incorniciata come un ritratto.

— Che vuoi, bella Olga? chiese il giovane conte senza levarsi dal divano, tendendole indolentemente una mano molle e robusta.

Ella venne famigliarmente a sedergli presso la testa, sulla quale lasciò errare la mano guantata. Il suo abito bruno pareva funebre fra tutto quel bianco, mentre la sua faccia, rossa ancora dalle sferzate del freddo nella strada, stentava a riacquistare tutta la propria delicatezza.

— Nemmeno tu ci sei stato? domandò con voce quasi rauca.

— No.

— Non c’era che lui.

— Me lo sono immaginato; poi dopo una pausa: e Rodion?

— Sublime! Ha mostrato come Rissakoff i polsi rotti dalla tortura. Non c’era quasi nessuno: già era presto.... freddo.

Olga si levò: forse la visione del patibolo le riappariva più terribile fra quel bianco, del quale il tepore le saliva sotto gli abiti e su per il volto a riscaldarle il sangue. A quell’ora Rodion doveva essere disteso, col collo rotto, sopra una panca nella camera funeraria: si sapeva che i medici dell’università dovevano fargli la necroscopia.