rendeva più triste quella stagione, già per sè stessa poco gradevole in
Russia per la violenta alternativa di venti, che raggelano e sgelano con
pericolosa rapidità immense zone di neve e di acqua. Il giovane sibarita
aveva preso allora un bagno di vapore e, ravvolto in un’ampia veste da
camera di grossa lana bianca del Tibet, stava assaporando con voluttuosa
lassitudine una sigaretta, lungo disteso sopra un divano. Il salotto,
tutto bianco, aveva una strana fisonomia, pura e selvaggia. Le sue
pareti tappezzate di pelli di orso bianco, dalle quali penzolavano qua e
là come gemme le unghie inargentate, si confondevano colla volta parata
di un’indefinibile stoffa bioccosa, che si riuniva capricciosamente nel
mezzo per sostenere un antico lampadario di vetro carico di candele
trasparenti. Un tappeto bianco, grosso e duro, le formava sotto un piano
quasi troppo rigido, mentre due divani ricoperti in pelle d’orso, larghi
e bassi, sembravano due letti, cui i cuscini delle spalliere ricamati di
ceniglia e d’oro dessero un significato d’amore. Sopra un tavolino in
metallo bianco, dalla forma bizzarra di tripode, presso la finestra
velata da una doppia tenda, un samovar d’argento gorgogliava tenuemente
nel silenzio caldo del salotto, già aromatizzato dal fumo della
sigaretta. In un angolo, sopra un paravento giapponese, chiuso in una
cornice di ramoscelli di una flora sconosciuta, passava per un cielo di
argento opaco un gran volo di uccelli