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preparava nella storia. Mentre il volgo innumerevole dei mugiks seguitava a vivere nella stessa brutalità millenaria, quanti in Russia pensavano erano in preda agli spasimi della concezione. L’incredulità, già secolare nell’aristocrazia, era discesa nella classe dei mercanti; nessuno credeva più a nulla. Il governo era appena un’amministrazione, nella quale si entrava per la paga, l’ortodossia non serviva più che alla superstizione delle plebi rusticane, la filosofia stessa si sgretolava sotto i colpi della scienza. Darwin, alla testa di tutti i grandi naturalisti, dissipava i vecchi sistemi ideali; bisognava vivere nella natura, profittando di ogni sua risorsa, cancellando nella sua eguaglianza tutte le differenze sociali. I poeti cantavano già dinanzi alla rivoluzione, come gli alcioni prima della tempesta: Ogareff e Negrassof gettavano sospiri ed imprecazioni, Lermontoff era morto tragicamente, Hertzen da Londra col suo Kolokol, la campana, suonava i vespri della vecchia società; Tcherniscevskj, maggiore di tutti, povero figlio di pope, riunendo la scienza di Proudhon all’eloquenza di Lassalle, scrollava i cardini dell’impero e di tutta la vecchia economia. Il suo romanzo «Che fare?» in risposta a quello di Hertzen «Di chi la colpa?» era diventato il vangelo della nuova generazione. E Tcherniscevskj era stato deportato in Siberia: tanto meglio! I martirî abituano i timidi alla morte.

In preda al delirio di una rivincita, della quale