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Poco lungi dal piano-forte uno sgabello, formato con corna di renna, di una rusticità polare, e una poltroncina di un cilestro soavissimo, squisitamente parigina, si toccavano ancora chi sa dopo quale conversazione. Loris attratto dalla loro antitesi si avvicinò. Gli parve che la poltrona esalasse un tenue profumo, e che la sua imbottitura fosse pesta.

Quindi molte voci gli giunsero dal di fuori. Un gruppo di mugiks aspettava alla porta del castello, col capo scoperto, di essere introdotto per salutare il padrone.

Questa abitudine servile, rimasta anche dopo l’emancipazione, gli trasse sulle labbra un amaro sorriso; ma la porta a vetri stridè, e tutti i mugiks s’inchinarono, alcuni sino a toccare colla fronte la neve. Il principe si era presentato sulla soglia a ringraziarli, preferendo evidentemente di non riceverli per non ammorbare la casa col puzzo delle loro pelli. Quella scena durò a lungo. Forse i mugiks avevano qualche cosa da chiedere all’antico padrone, e v’insistevano colla loro tradizionale tenacità, seguitando ad inchinarsi dopo ogni parola, come in chiesa, durante la messa. Colle figure tozze, coperte di pelliccie di montone, la chapka in mano, i lunghi capelli sulle spalle e le barbe anche più lunghe, piantati sulle scarpe larghe di vimini, fra l’abbacinante candore della neve formavano un quadro di un vigore straordinario. Stavano ordinati su tre file, ma non parlavano che quelli davanti.