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gi; il Governo inoperoso dimenticava l'impresa pel quotidiano dibattito parlamentare. Bande nomadi, racimolate dal più feroce e dal più abile dei generali abissini, scorazzavano minacciose sui confini del nostro campo, marcato da fortilizi sprovveduti, mal difeso da truppe così scarse, che non potevano nemmeno comunicare fra loro senza pericolo.
Invece di vendicare l'eccidio di Bianchi, il nostro piccolo esercito assisteva inerte alla nuova strage della spedizione del Porro, che il Ministero non osò considerare italiana, e alla cattura dell'ultima missione Piano e Salimbeni, mandata secretamente dal Governo stesso. Una immensa malinconia di una viltà nè voluta nè meritata si aggravava sulla nazione: le antiche diffidenze lasciate dai disastri di Custoza e di Lissa risorgevano nella coscienza popolare; si dubitava dell'esercito regio, s'invocava il nome di Garibaldi morto, ma più vivo e grande che mai nello spirito di tutti. Dov'erano adesso i suoi garibaldini di Montevideo e di S. Pancrazio, di Marsala e di Digione? Dov'era morto Nino Bixio, tigre fra i leoni, così violento che solo Garibaldi poteva frenarlo, e così intrepido che egli stesso lo guardava ammirando? Dov'era Alfonso Lamarmora, ultimo cavaliere del Conte Rosso, che con diecimila Piemontesi aveva resistito a ottantamila Russi, strappando eroici applaus