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dovevano proteggerla da nemici allora insupponibili.
E la gente rideva ancora.
Poscia si aperse l’Esposizione di Torino, mercato delle poche ricchezze dell’arte italiana, nella quale un villaggio medioevale costrutto colle leggi prospettiche di un scenario, col suo castello medioevale in fondo, improvvisato, falso, più meschino di un balocco, più ridicolo ancora dell’idea d’onde era nato, più labile forse dello stesso scopo cui era destinato, fu la sovrana meraviglia e il vanto più orgoglioso. Gli affreschi vi erano dipinti sulla tela, ma i camerieri vi portavano le assise degli antichi servi. Il castello, invece di sorgere sui monti armonizzando con essi la propria architettura, era nascosto nel fondo di una pianura oltre il Po; le case che vi conducevano non avevano che la facciata, ma in compenso nelle loro botteghe imitatamente vetuste artieri moderni abbigliati all’antica vi facevano per la curiosità dei passanti, addottrinati da appositi ciceroni, le stoviglie di un tempo. Era una mascherata nella quale arte e scienza, storia e patria facevano la più umiliante delle figure.
E parve alla stampa che giammai il genio italiano avesse avuto più nobile e meravigliosa fantasia.