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forze, tutto il nostro intelletto, tutte le nostre cure debita mente adoperare. Non dobbiamo fuggire danni domestichi, non fatiche corporali, non affanni, non fami, non seti, non freddi, non caldi, non disagi, o vero qualunque altri pericoli della fortuna. Non per la Patria dobbiamo alle ricchezze, ai parenti, agli amici, alle famiglie, a’ figliuoli, non eziandio alla propria vita perdonare.

Ogni nostro bene umano dobbiamo essere disposti a compensare per li amplissimi beneficii della Repubblica nostra, dalla quale tutte le sopradette fortune e gioconde felicità possediamo, ed a’ cui liberalissimi doni non potremo mai con tutte le nostre forze, equivalenti meriti retribuire. O quanto largamente per la salute della Patria questi salutari ammonimenti gli antichi maggiori nostri osservarono! O quanta fiamma d’amore inverso la Repubblica loro ardeva nelli loro petti gloriosissimi per la cui salute quasi mille volte il dì la vita a mille morti magnanimamente posono. Certo di esempli sono piene tutte le antiche storie. Ricordivi dell’atto del fortissimo Muzio Scevola, che avendo il Re Porsenna con infestissimo esercito miserabilmente afflitta e assediata Roma, uscito secretamente della Città per uccidere Porsenna, e aspettando dinanzi al padiglione, vide uno ornatissimamente vestito, il quale estimando essere il Re, ferocemente l’uccise. Ed essendo preso, e dinanzi al Re menato, la destra sua mano sopra l’ardente fiamma volontariamente distese, dicendo: che quella sola meritava supplicio, non egli, il quale non quello che morto era, ma esso Re presente, per amore della Patria, deliberato avea d’uccidere. Ma non pensasse perciò Porsenna avere fuggito il pericolo della certissima morte, perocchè, quantunque Muzio errato avesse, rimanevano ancora vivi in Roma trecento congiurati, che sanza errore converrebbono fornire quello, che egli incautamente aveva principiato. Per la cui audacia il Re spaventato, subito col ferocissimo Popolo di Roma contrasse pace. Che diremo noi di Orazio Cocles, il