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atto quarto. 63

D’odio in terra non lascia, e di quel tanto
Ch’ella sofferse, Iddio scongiura, e spera
Ch’Egli a nessun conto ne chieda, poi
Che dalle mani sue tutto ella prese.
Questo gli dica, e.... se all’orecchio altero
Troppo acerba non giunge esta parola....
Ch’io gli perdono. - Lo farai?

                       ansberga.
                                         L’estreme
Parole mie riceva il ciel, siccome
Queste tue mi son sacre.

                       ermengarda.
                                 Amata! e d’una
Cosa ti prego ancor: della mia spoglia,
Cui mentre un soffio l’animò, sì larga
Fosti di cure, non ti sia ribrezzo
Prender l’estrema; e la componi in pace.
Questo anel che tu vedi alla mia manca,
Scenda seco nell’urna: ei mi fu dato
Presso all’altar, dinanzi a Dio. Modesta
Sia l’urna mia: - tutti siam polve: ed io
Di che mi posso gloriar? - ma porti
Di regina le insegne: un sacro nodo
Mi fe’ regina: il don di Dio, nessuno
Rapir lo puote, il sai: come la vita,
Dee la morte attestarlo.

                       ansberga.
                               Oh! da te lunge
Queste memorie dolorose! - Adempi
Il sagrifizio; odi: di questo asilo,
Ove ti addusse pellegrina Iddio,
Cittadina divieni; e sia la casa
Del tuo riposo tua. La sacra spoglia
Vesti, e lo spirto seco, e d’ogni umana
Cosa l’obblio.

                       ermengarda.
                       Che mi proponi, Ansberga?
Ch’io mentisca al Signor! Pensa ch’io vado
Sposa dinanzi a Lui; sposa illibata,
Ma d’un mortal. - Felici voi! felice
Qualunque, sgombro di memorie il core
Al Re de’ regi offerse, e il santo velo
Sovra gli occhi posò, pria di fissarli
In fronte all’uom! Ma - d’altri io sono.

                       ansberga.
                                               Oh mai
Stata nol fossi!