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sulla lingua italiana 655

certamente ce ne fu uno; e tutta la colta Italia è d’accordo col fiorentino Varchi, il quale, pregato da quell’autore (fo conto d’aver nominato il Cellini) di correggere il suo scritto, rispose che «gli sodisfaceva più in quel puro modo, che essendo rilimato e ritocco da altri1.» Ora domando se a un nativo di qualunque altra parte d’Italiasarebbe potuta riuscire una cosa simile col suo idioma; anzi, se gli sarebbe potuto venire in mente d’adoprarlo a un tale lavoro, nemmeno a uso de’ suoi compaesani.

Gl’idiomi, nel loro stato primitivo, non servono che al parlare e a far de’ versi: prosa non ne conoscono altra che quella del Bourgeois Gentilhomme.A questo stato sono rimasti tutti g’idiomi d’Italia; e se in qualcheduno di essi si sono composte e scritte delle commedie in prosa, non fa nulla, perchè anche questo è un parlare. Tutti, dico, meno uno; il quale, con tutto ciò e come se nel suo caso, nulla ci fosse stato, come se nulla ci fosse ancora di speciale, d’unico, è da molti Italiani chiamato vernacolo !

Ma a questo punto, guardandomi indietro, m’avvedo che, mentre m’ero obbligato a restringere il mio ragionamento in certi determinati confini, sono andato, per un pezzo, girando, vagando,

«Di pensier in pensier.»2


di palo in frasca, a proposito di qualche cosa venuta, a proposito di qualche altra, saltando da chi non vuol sentir parlare di ciò che gli manca, a chi non vuol sentir parlar di ciò che ha, e così via, senza nulla che accenni a concludere. E nondimeno, se l’ho a confessare, mi par che ci sarebbe ancora molto da dire, e che perfino varie nude proposizioni messe fuori in questo medesimo scritterello, potrebbero servir di testi ad altrettanti predicozzi. Ma subito dopo m’assale un dubbio tremendo: se questa gran voglia di dire venga, o da abbondanza di materia, o da parlantina di barbogio. Per andar quindi sul sicuro, fo punto. E chiudo con lieto presagio, che la voce d’altri più valenti di me a patrocinar questa causa; e l’esempio pratico, la scola viva di scrittori toscani che abbiano, dovrò dire, il coraggio? di esser toscani con la penna in mano, come lo sono con la lingua in bocca, conversando tra di loro de omnibus rebus, cosa da non potersi fare con de’ riboboli; e il sentimento pubblico, eccitato dalla nova vita dell’Italia, che rende, a un tempo, più manifesta e la deformità del linguaggio discorde, e la possibilità di concorrere, ognuno per la sua parte, a procurarne il rimedio; che, dico, tutte queste forze insieme prestino un aiuto potente ai mezzi che un Governo finalmente italiano può avere in pronto, e che il signor Ministro della Pubblica Istruzione, Emilio Broglio, benemerito promotore della questione, ha già principiato a mettere in opera.

Ventun’anni fa tra vari pareri (non erano allora, nè potevano esser altro) intorno all’assetto politico che convenisse meglio all’Italia, ce n’era uno che moltissimi chiamavano utopia, e qualche volta, per condescendenza una bella utopia. Sia lecito sperare che l’unità della lingua in Italia possa essere un’utopia come è stata quella dell’unità d’Italia.




  1. Lettera di Benvenuto Cellini messa innanzi alla sua Vita nell’edizione milanese delle opere classiche Italiane.
  2. Petrarca, Canzone xxx.