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654 appendice alla relazione


E io: I troppi dialetti sono senza dubbio un incomodo, ma qui proprio i dialetti non ci entrano per nulla.

E lui: Come può essere dunque che la stessa cosa si chiami a Firenze in un modo, e in un altro a Milano.

E io: Vi ripeto che a Milano nella lingua, o se volete nel dialetto del luogo, non si dice uscita, nè a Pistoia egresso, nè a Firenze sortita. Son tutti vocaboli presi da una stessa lingua, che è la lingua comune degli Italiani, quella che gli Italiani studiano appunto, per avere una lingua unica da contrapporre ai tanti loro dialetti.

Capisco! esclamò allora il mio interlocutore. — È un effetto della gran ricchezza di questa vostra lingua comune o unica che sia! — Egli aveva, senza saperlo, toccato un tasto delicato. Mi guardai intorno:

«Soli eravamo e senza alcun sospetto.»


Presi dunque coraggio e continuai: Ricchezza non direi. Perchè quando s’hanno, esempigrazia, tre parole per dire la stessa cosa, siccome non se ne può usare più d’una alla volta, le altre due restano per lo meno inutili. E dico per lo meno inutili; perchè l’esserci più modi di dire la stessa cosa, e il volerci sempre un po’ di studio per scegliere, fa sì, che nessuno di questi modi la dica con quella naturalezza, e quell’effetto d’evidenza immediata, che viene dall’applicazione costante e uniforme allo stesso caso dello stesso vocabolo, e così nessuno dei tre o quattro che siano, faccia in fondo l’ufficio suo così bene, come lo farebbe, se fosse solo, nelle lingue vive, cioè lingue vere e reali, un caso simile non si può dare....

E coll’abbrivo che avevo preso, chi sa dove sarei andato a fermarmi, se non mi fossi accorto che il mio interlocutore non mi seguiva più, e aveva il capo a tutt’altro.

Ond’io, per evitare la sorte di tanti, che parlano alla camera, ammainai le vele, e feci e fo punto, lasciando a te le riflessioni e i commenti.»

Non ce ne dovrebbe esser bisogno, e a volerne proprio fare, non potranno essere che una ripetizione di quel medesimo, cioè: Ecco cosa nasce dall’aver per lingua comune, per lingua nazionale, per lingua italiana, una congerie di vocaboli, la quale, oltre il non corrispondere di gran lunga alle cose che si dicono in tutta Italia, dice in diverse maniere anche una parte di quelle che dice.

Da tutto ciò s’ha forse a concludere che quel mezzo per cui l’Italia potrebbe acquistare l’unità della lingua, sia stato levato affatto di posto, rinnegato, dimenticato dall’Italia medesima? No, grazie al cielo. Ci sono degli altri fatti che danno indizio del contrario, per una di quelle felici contradizioni che lasciano un filo attaccato alla verità, col quale si può, a miglior tempo, riprenderla intera e sola. Di tali fatti n’abbiamo accennato un qualcheduno in questo scritto medesimo e non sarebbe difficile il trovarne degli altri.

Si compongono, per esempio, de’ canti popolari in tutti gl’idiomi d’Italia: canti che sono più o meno generalmente conosciuti ne’ loro luoghi natii, e se alcuni ne escono per mezzo della stampa, e sono più o meno intesi in altre parti d’Italia, ci sono però sempre riguardati come cose particolari de’ rispettivi paesi. E donde nasce, che, quando si pubblicano de’ canti popolari toscani, l’Italia dice: Questa è roba mia?

Ci fu egli nessun Italiano a cui venisse in mente di scrivere i fatti e le vicende della sua vita, nel suo puro e pretto idioma, in quello, dico, che adoprava parlando con tutti i suoi compaesani, in ogni circostanza? Sì