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652 | appendice alla relazione |
in modo da non lasciarlo vedere; e trovando per fortuna i termini che gli venissero in taglio, doveva poi fare de’ giudizi di probabilità, per argomentare se fossero o non fossero in uso ancora; e non si fidando spesso di questi, doveva far faccia tosta coi cortesi Fiorentini e con le gentili Fiorentine, che gli dassero nell’unghie, e domandare: si dice ancora questo, o come si dice ora? e come si direbbe quest’altro che noi esprimiamo così nel nostro dialetto? e simili. Il periodo è riuscito lungo; ma le sarebbero state pagine, se v’avessi dovuta raccontar la storia per filo e per segno.
Ma perchè non si dica ch’io pretenda di darvi come un argomento dimostrativo un experimentum in anima vili, v’addurrò un’osservazione fatta da un altro sopra un ben altro soggetto. E la trovo nel «Discorso, ovvero Dialogo» sulla lingua, attribuito al Macchiavelli, e certamente non indegno di lui; dove, figurando di stare a tu per tu con Dante gli dice «Io voglio che tu legga una commedia fatta da uno degli Ariosti di Ferrara, e vedrai una gentil composizione, e uno stile ornato e ordinato; vedrai un modo bene accomodato, e meglio sciolto; ma la vedrai priva di que’ sali che ricerca, una commedia tale,....... perchè i motti ferraresi non gli piacevano, e i fiorentini non sapeva; talmentechè li lasciò stare.»
Senonchè la questione è ristretta qui in troppo angusti confini. I sali e i motti non sono, di gran lunga, nè la parte più copiosa, nè la più importante dell’espressioni proprie, e spesso esclusivamente proprie, d’un idioma qualunque. Oltre i vocaboli direttamente propri e, per dir così, tecnici, ci sono in ognuno quei già accennati modi di dire composti di più vocaboli, e che hanno, comunque gli abbiano acquistati, altrettanti significati e modificazioni di significati d’un’infinita varietà di concetti: modi di dire, che molti, quando si tratta del toscano, mettono in un fascio alla cieca con alcune espressioni della plebe, sotto la superbamente beffarda denominazione di riboboli; non già perchè ci vedano sotto un significato plebeo, perchè abbiano in pronto da dare delle espressioni equivalenti, chi gliele chiedesse; ma per la sola ragione, che a loro riescono novi. Ma è un punto che; per esser messo nella luce conveniente, richiederebbe d’esser trattato più a lungo di quello che permetta il presente scritto.
Però, questo stesso argomento della commedia ci offre un’occasione d’accennare, in pochissime parole, come la questione sia più generale di quello che ne ha toccato l’autore suddetto. Non c’è chi non riconosca nelle commedie del nostro Goldoni una pittura la più varia e fedele di costumi, un’abbondanza di caratteri originali e ben mantenuti, non solo ne’ persanaggi principali, ma anche ne’ secondari, una fecondità d’invenzioni, un ingegnoso artifizio d’intrecci, e tant’altri requisiti primari di quel genere di componimenti. Ma la lingua, un giudizio del pari generale, la chiama difettosa; lì, o nessuno lo difende, o certo, nessuno lo loda. È forse il caso di dir di lui ciò che disse Maarbale ad Annibale che non si seppe risolvere a condurre contro Roma l’esercito vincitore a Canne: la è così; a nessun uomo furono mai concessi tutti i doni1; o d’applicargli alla rovescia quello di Cesare che, lodando Terenzio per la purezza del linguaggio, deplorava che gli mancasse il vigore2? No, davvero, perchè quel Goldoni medesimo, con le altre sue commedie scritte in puro e