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sulla lingua italiana 651

giunte; nè altri, ch’io sappia, si sono proposti di raccogliere l’Uso intero di Firenze, prendendolo per unico criterio, e di dare così all’Italia un vocabolario pari a quello che la Francia possiede; nessuno certamente potrà dire che sia nè consigliare un’usurpazione, nè suscitare una concorrenza, il rivolgersi a chiunque possa avere l’abilità e la voglia di fare una cosa che nessun altro pensa a fare.

E in tali circostanze, s’avrà egli a dubitare che, tra le tante altre colte e dotte persone di Firenze, alle quali l’abilità non ne manca di certo, ce ne possano essere alcune che ne abbiano anche la benedetta voglia? S’avrà egli, dico, a credere che una tale inerzia, una tale svogliataggine abbia occupati tanti ingegni per natura vivaci, da non lasciarli, o avvertire l’importanza dell’impresa, o sentirsi il coraggio di prenderla? che in un fervore tanto generale d’associarsi per tanti diversi scopi, tra i quali uno de’ lodevoli è quello di promovere la coltura, un mezzo così opportuno a ciò abbia a essere repudiato da quelli che ne sono in possesso? che, pronti a risentirsi, e a ragione, con chi neghi loro il vanto della lingua, non avvertano l’obbligo che impone loro un tal vanto? e che, ridendo al sentire o al leggere delle parole di questo o di quel dialetto, che escono dalle bocche o dalle penne di noi altri non toscani, non venga loro in mente che a quelle risa noi possiamo rispondere: chi ci ha insegnato come si deva dire? Non è egli una pietà (mi condonino questo sfogo, giacchè anche l’amore ha le sue collere), non è egli una pietà a immaginarsi tanti autori di vocabolari di questo o di quel dialetto, andar come a tasto, con gran fatica, a cercar locuzioni da sostituire alle vernacole, mentre di quelli che potevano dar loro il mezzo di far la cosa e più interamente e più sicuramente, e più facilmente, nessuno ci abbia voluto pensare? E era forse da presumere che que’ poveri autori avrebbero sdegnato un tale aiuto? Tutt’altro; l’intenzione opposta apparisce dall’esser ricorsi principalmente al Vocabolario della Crusca, prendendone ugualmente il vivo e il morto, e per sussidio a scrittori in gran parte toscani1.

E ci sarebbe forse da farvi più pietà ancora, se v’avessi a raccontare i travagli ne’ quali so essersi trovato uno scrittore non toscano che, essendosi messo a comporre un lavoro mezzo storico e mezzo fantastico, e col fermo proposito di comporlo, se gli riuscisse, in una lingua viva e vera, gli s’affacciavano alla mente, senza cercarle; espressioni proprie, calzanti, fatte apposta per i suoi concetti, ma erano del suo vernacolo, o d’una lingua straniera, o per avventura del latino, e naturalmente, le scacciava come tentazioni; e di equivalenti, in quello che si chiama italiano, non ne vedeva, mentre le avrebbe dovute vedere, al pari di qualunque altro Italiano, se ci fossero state; e non c’essendo dove trovar raccolta e riunita quella lingua viva che avrebbe fatto per lui; e non si volendo rassegnare, nè a scrivere barbaramente a caso pensato, nè a esser da meno nello scrivere di quello che poteva essere nell’adoprare il suo idioma, s’ingegnava a ricavar dalla sua memoria le locuzioni toscane che ci fossero rimaste dal leggere libri toscani d’ogni secolo, e principalmente quelli che si chiamano di lingua; e riuscendogli l’aiuto troppo scarso al bisogno, si rimesse a leggere e a rileggere, e quelli e altri libri toscani, senza sapere dove potesse poi trovare ciò che gli occorreva per l’appunto, ma supplendo, alla meglio, a questa mancanza col leggerne molti, e con lo spogliare e rispogliare il Vocabolario della Crusca, che ha conciato

  1. Se ne può vedere un esempio notabilissimo nel lungo Indice degli autori citati da Francesco Cherubini nel Vocabolario Milanese-Italiano.