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648 appendice alla relazione

ugualmente stolte e crudeli, che regnavano in quasi tutta l’Europa. Insieme con quegli scritti, ne principiarono a venir di là, e a correre per le mani d’un maggior numero, altri d’un genere più letterario, e di più attraente lettura, e stesi (più o meno accuratamente e felicemente, s’intende) in quel linguaggio ricco, vario, animato, che serviva di fatto a tutto il commercio d’idee nella vita reale.

In un tale emergente, il partito ovvio e ragionevole riguardo alla lingua (della quale e della quale sola, si tratta qui) sarebbe stato quello di prendere dalla francese, come istrumenti di nove cognizioni già preparati e alla mano, le locuzioni esprimenti cose utili e non ancora dette in Italia, e lasciare indietro il rimanente. Ma per applicare un partito, per quanto bono in sè, bisogna averne il mezzo; e in questo caso il mezzo necessario sarebbe stato il possedere una lingua, cioè un Uso, il quale servisse di criterio pratico nella scelta. Ora, degli Usi, in Italia ce n’erano vari, che vuol dire l’opposto per l’appunto di ciò che ci sarebbe voluto; e quell’uno che aveva un titolo per diventar comune in Italia, c’era bensì anche lui, e sempre vivo; ma, non si movendo, se non nel suo, dirò quasi, recitato, era per il rimanente d’Italia, quasi come se non ci fosse. Accadde quindi qualcosa di simile a ciò che, in un ordine di cose ben più importante, s’era veduto negli ultimi anni del secolo decimoquinto, quando que’ principi italiani, d’infausta memoria, cominciarono ad «assaggiare i colpi delle oltramontane guerre1.» Il mezzo di far argine ai novi barbari, sarebbe stato allora, per l’Italia, un esercito unico e comune, proporzionato al suo territorio, addestrato, ubbidiente, confidente nel suo valore, nella sua disciplina e nel suo numero. Ed era per l’appunto ciò che mancava; e che, dopo essere stata l’Italia, per tre secoli e mezzo, campo delle battaglie altrui, e in parte proprietà immediata, ora di questo ora di quel potentato straniero; e in parte materia morta di spartizioni, di ritagli, di compensi, era riservato ai nostri giorni, insieme con la sicurezza e con la dignità e con gli altri minori, quantunque importanti, beni dell’unità; beni che, senza di esso, perirebbero tutti a un colpo con l’unità medesima. E similmente nel fatto della lingua; fu la mancanza d’una unità prevalente, che lasciò aperta la strada a quella che abbiamo chiamata invasione de’ gallicismi. E si vede in Italia un altro di que’ fatti deplorabili, forse non unici, ma certo rarissimi: presso l’altre nazioni colte, cioè autori e d’ingegno e dotti, non solo non curarsi della purezza della lingua, ma deridere questa espressione, come vota di senso, e mero gergo di pedanti: quella purezza, dico, che Cicerone ammirava ne’ Commentari di Cesare2, e Cesare (quel pezzo di pedante, che ognuno sa) lodava nelle commedie di Terenzio3. E da un’altra parte, quelli che la difendevano contro i novatori, la facevano consistere nell’attenersi; o ad alcuni scritti, o ai limiti arbitrari d’un Vocabolario, o in altrettali cose inette a produrre gli effetti veri d’una lingua, come aliene dal concetto logico di essa. Così la mancanza di quell’Uso, al quale si riferisce, e col quale, per dir così, s’identifica la purezza della lingua4, e che, col solo esserci,

  1. Macchiavelli, Dell’Arte della Guerra, Lib. VII sulla fine.
  2. Nudi sunt; recti et venusti..... Nihil enim est in istoria pura et illustri brevitate dulcius. Cic. Brut. 75.
  3. Tu quoque tu in summis, o dimidiate Menander,
    Poneris, et merito, puri sermonis amatori
              Cæs. apud. Donat. in vita Terentii.

  4. Pure et emendate loquentes, quod est latine. Cic. de Opt. gen. orat. 2. Parler, et écrire purement. Parler et écrire avec una grande propriété d’expression, n’employer que des tours conformes a l’usage et au génie de la langue. Dictionnaire de l’Acad. Franç. alla voce Purement.