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sulla lingua italiana | 645 |
L’idioma francese, tanto inferiore al toscano nel primo manifestarsi dell’uno e dell’altro in composizioni letterarie, andava già, a passi lenti, ma non mai all’indietro, verso un impreveduto e ben più potente avvenire; a diventar cioè, di fatto, la lingua d’una nazione.
Come il latino, aveva la sua sede in una piccola città, capo, da principio d’un piccolo Stato, ma destinato a estendersi: e come il latino, di mano in mano che lo Stato s’estendeva, l’idioma francese gli teneva dietro, con quella prevalenza o efficacia speciale che un idioma tiene dall’esser quello d’una capitale. Il toscano, con quella sua prima, prodigiosa manifestazione, faceva de’ discepoli fuori de’ suoi confini; il francese si creava de’ sudditi. Quello era offerto, questo veniva imposto, coi mezzi prestati dalle circostanze in simili casi.
Tanto il toscano, quanto il francese, erano adottati di nome ne’ paesi dove s’erano introdotti in que’ due diversi modi; e si disse là scrivere e parlar francese, e qui scrivere e parlar toscano; ma con questa gran differenza: che, nel primo caso, l’idioma conquistatore era a fronte e, per dir così, alle prese incessantemente con gl’idiomi locali; era sempre lì a farsi sentire, a immischiarsi in tutte le faccende della vita, e (condizione indispensabile) a dar l’equivalente di ciò che tendeva ad abolire: effetto che non possono certamente ottenere alcuni libri, per quanto eccellenti.
Il primo propagarsi del francese avvenne naturalmente nelle poche province che costituivano l’ultimo regno de’ Carolingi, e che Ugo Capeto aveva aggregate al suo ducato di Francia, formando di tutto insieme il novo regno. Ma l’importanza acquistata da quel primo passo, l’accrescimento della capitale, venuto dall’accrescimento dello Stato, il lustro d’una corte reale, e il conseguente accrescersi e ingentilirsi della lingua, furono cagione che, circa un secolo dopo, questa avesse già principiato a far sentire la sua superiorità, e a sovrapporsi in parte agl’idiomi d’altri paesi non ancora annessi, della Langue d’oïl, cioè di quel complesso d’idiomi, più o meno affini tra di loro e col francese, che si parlavano nella parte settentrionale quella che ora è la Francia. Ed era un’anticipazione del più diretto e forte possesso che ci doveva prender poi1.
- ↑ I più antichi attestati che rimangono di quella superiorità del francese sono naturalmente in versi, e si trovano in varie, o proteste, o confessioni di poeti della Langue d’Oil, non francesi, citate nel dotto libro del Sig. A. De Chevallet, De l’Origine et de la Formation de la Langue Française. Non parrà, spero, al lettore cosa estranea all’argomento il dar loro un cantuccio qui fuori del testo:
Il conte Quènes, o Coënes de Béthune, troviere
(Trouvère, così si chiamavano i poeti della Langue d’Oil) della contea d’Artois, venuto alla corte di Francia; circa il 1180, e pregato dalla regina reggente e dal giovinetto re Filippo, secondo, di questo nome, e denominato poi Filippo Augusto, di recitare qualche sua canzone, si lamenta in una, composta più tardi, che, il suo linguaggio è stato biasimato dai cortigiani, francesi e dalla regina e dal suo figlio. «Se la mia parola, dice, non è francese, i francesi la possono però intendere benissimo:» ragione che, in Italia, è tenuta, anche oggi per valida da non pochi «E non sono, aggiunge, nè ben educati, nè cortesi quelli che m’hanno ripreso per de’ vocaboli dell’Artois; giacchè non fui allattato a Pontoise. Ecco i versi del testo:
«Mon langage ont blasmé li François....
La roïne ne fit pas que courtoise,
Qui me reprist, elle et ses fiex li rois;
Encore ne soit ma parole françoise,
Si la peut-on bien entendre en françois.
Ni cil ne son bien appris ne courtois,
Qui m’ont repris si j’ai dit mot d’Artois,
Car je ne fus pas norriz a Pontoise.»
Op. cit. Prolégomènes, pag. 36.