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sulla lingua italiana | 643 |
questa, essendo un fatto d’un’importanza non tanto storica, quanto attuale, richiede d’esser trattato un po’ più per disteso.
Le due prime, il latino, cioè, e il toscano, oltre il produrre l’effetto accennato, avrebbero potuto essere, l’una un agevolamento, l’altra un mezzo diretto a unità di lingua in Italia, quando non ci fosse mancato l’aiuto delle circostanze. A ogni modo, se gli effetti di quelle lingue furono inadequati a un tal risultato, non furono, nè potevano essergli opposti, nè riuscir dannosi per nessun verso. Gli effetti, invece, della terza (il lettore ha già veduto che si tratta della francese) sono un misto singolare di bene e di male: in parte utili acquisti, in parte aumento d’una già troppo deplorabile varietà. È quindi d’un’importanza pratica il distinguere tra due tali sorte d’effetti, e il cercare se ci siano e quali sieno i mezzi di distruggere, o almeno di scemare i cattivi, e insieme d’impedire che s’accrescano. E sarà, credo, facile il vedere che il mezzo e più pronto e più generale è, anche per questa parte, quel vocabolario ugualmente utile per ogni altra.
Regnano in Italia, o piuttosto pugnano tra di loro, due opinioni intorno alle locuzioni venute di Francia, da un secolo circa, e che continuano a venire: una che dice a tutte: Passi; un’altra che dice a tutte: Via. E qui, come in ogni questione relativa a lingua, la soluzione logica e utile non si può trovar che nell’Uso, val a dire in ciò che è dimenticato ugualmente dalle due parti.
Sotto il nome di gallicismi si confondono, infatti, due specie di locuzioni, pari bensì riguardo all’origine, ma dissimili nella loro condizione attuale, e che richiedono perciò d’esser giudicate diversamente.
Alcune sono entrate interamente nell’Uso toscano, il che, o per tutte, o certo per quasi tutte, vuol dire essere usate ugualmente in tutta Italia; giacchè non c’è ragione alcuna per credere che l’influsso della lingna francese sia stato più attivo e più esteso in quella, che nell’altre parti d’Italia; ce n’è piuttosto, grazie al cielo, per supporre il contrario. Di tali locuzioni non c’è altro a dire, se non che formano per il titolo medesimo di quelle che siano riconosciute per le più legittime, una parte dell’Uso toscano, cioè un tanto d’unità di lingua acquistato di primo tratto, e senza aiuto intermediario, da tutta l’Italia. Cercare nella loro origine un motivo d’accettarle o d’escluderle, sarebbe come se, vedendo uno far bene un mestiere, si volesse, per accertarsi della sua abilità, indagare la sua genealogia. E quando pure si trovasse che alcune di esse fossero venute a cacciar di posto altre locuzioni vive un tempo e aventi un medesimo significato, si potrebbe bensì dir con ragione che s’è fatto male a non tenerle indietro quando venivano a disturbare de’ consensi già formati; ma per la stessa ragione appunto, si deve riconoscere che sarebbe un rinnovare lo stesso inconveniente il cavar fuori e riproporre le antiche.
Del rimanente, e per un di più, è facile il riconoscere, anche ad una prima occhiata, quante e quante di queste locuzioni straniere siano venute a prender de’ posti voti, a significar cose, o pensate, o scoperte, o praticate in altri paesi, e non conosciute tra di noi, se non per questo mezzo. Così, per addurne un esempio de’ più manifesti, qualche nazione straniera ebbe e occasioni e mezzi che mancarono a noi, di formare locuzioni e quasi categorie intere di locuzioni relative a istituzioni politiche; e quando le occasioni e i mezzi vennero, «ancor che fosse tardi,» anche per noi, era naturale che, e per ragionar delle cose, e per metterle in pratica, s’adoprassero addirittura le forme verbali ch’erano state per noi il mezzo della cognizione. L’ espediente di formar da noi, a quell’intento, una nomenclatura nova, sarebbe stato troppo strano, perchè venisse in mente ad alcuno; e lo sarebbe stato non meno il pensare di poter noi, operai del-