Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
640 | appendice alla relazione |
semplici, un vocabolario ha anche un mezzo d’accostarsi un po’ più all’imitazione dell’esercizio vivo e pieno d’una lingua, con quelle frasi esemplari, nelle quali i vocaboli sono accozzati e messi in azione dall’Uso.
Dall’applicazione di queste leggi generali del linguaggio alle circostanze particolari dell’Italia, mi pare potersi concludere che il mezzo di procurare ad essa l’unità della lingua; dico il mezzo fondamentale e supremo, al quale devono servire tutti gli altri; non può esser altro che la propagazione d’una lingua già bell’e formata nel modo che le lingue si formano.
IV.
Dirò di più: questo stesso che noi chiamiamo l’Italiano, questa mescolanza di voci, la quale, benché tanto lontana dall’equivalere a tutto ciò che si dice in Italia, anche a raccoglierla tutta insieme, e far d’ogni erba un fascio, pure è un mezzo d’intenderci intorno a un certo numero di cose, più o meno uniformemente, più o meno precisamente, dove per l’appunto, dove a un di presso; questo stesso Italiano non l’avremmo, se due lingue, vere lingue, la latina e la toscana, non ce n’avessero somministrati i materiali, in diversi tempi e in diversi modi.
Cos’è infatti, per ciò che riguarda la prima di queste cause, la massa principale degli elementi, di cui è composto questo Italiano, se non voci latine in origine? Quella lingua portò la sua unità nell’Italia divisa in tanti idiomi di varie origini; e se non riuscì a sradicarli e spegnerli affatto in ogni classe di persone, potè però, per mezzo degli scritti e del commercio inevitabile anche delle più rozze coi dominatori latini, e con la parte istrutta e, dirò così, latinizzata, delle popolazioni, immischiarsi in essi, e introdurci una quantità di vocaboli, che, o nella loro forma intera, o alterati in modi più o meno diversi, ci sono rimasti. Di maniera che, quando, per un concorso di cause, che sarebbe superfluo l’esporre in questo luogo, anche chi n’avesse la cognizione necessaria, la lingua latina cessò d’esser parlata in Italia; quando, anche nelle scritture, dove, in mancanza d’altro, s’ingegnavano d’adoprarla, non solo era imbarbarita, ma, per la confusione e, dirò così, per l’anarchia delle forme grammaticali, aveva perso, e l’essere e l’aspetto di lingua; allora il parlare degl’Italiani si trovò di novo tutto diviso in tanti idiomi, ma trasformati essenzialmente, e aventi tra di loro un’affinità che non avrebbero mai potuta contrarre nel loro essere di prima, una porzione comune di vocaboli che non avrebbero potuta acquistare, se non per l’intervento d’una causa estranea. Ed è quel medesimo che avvenne a tutte le nazioni che hanno lingue chiamate con molta proprietà neo-latine, perché sono, nella loro maggior parte, collezioni di solecismi latini; ai quali una nova, non in tutto costante, ma predominante analogia nel modo d’alterare i vocaboli di diverse classi, ha data una propria forma organica.
Ciascheduno poi di questi idiomi, presa ch’ebbe la sua (quanto è concesso alle lingue), acquistò, per questo stesso, la possibilità di propagarsi, d’estendersi ad altri luoghi, fino a essere accettata, come lingua comune, da un’intera nazione: effetto che l’affinità sopradetta rendeva più facile.
E per ciò che riguarda l’Italia, fu (occorre dirlo?) all’idioma toscano che toccò una tal sorte; come è noto che ne fu cagione principale l’eccellenza incomparabile d’alcune opere scritte in quell’idioma, e comparse in breve spazio di tempo. La virtù immediata di quelle opere, e l’accettazione che ne fa l’effetto, divennero poi insieme un mezzo efficace, per