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636 appendice alla relazione

tutto quanto sull’Uso vivente della loro lingua, sarebbero stati sgomentati e sopraffatti dalle grida di quella scola, fondata principalmente dal Trissino, e non finita, ho paura, col Perticari, la quale insegnava esserci in Italia un’intera lingua comune; dottrina inetta bensì a produrre, ma potente a impedire, e dalla quale non si potrebbe cavare altra utilità, che quella di tenercene e di congratularci a vicenda del nostro comune possesso. Del rimanente, era troppo difficile che, anche a quegli Accademici, venisse il pensiero d’una tale impresa. Come la cagione della prerogativa accordata alla lingua toscana era stata meramente letteraria, così la sua attività rimaneva quasi unicamente nel campo della letteratura. Si pensava a un mezzo di comunicazione, non d’ogni sorte di concetti tra tutti gl’Italiani, ma d’alcuni intorno ad alcune cose. Il riconoscimento non della signoria, ma d’una signoria dimezzata e subordinata, dellUso, e quella piccola parte datagli nel Vocabolario, come per condiscendenza, erano gli effetti soliti d’ogni vero principio, che quando non gli è dato il luogo intero che gli compete, ne prende ora un poco di qua, ora un poco di là, a salti, e come per forza, o per agguato: tamen usque recurrit1.

Sarebbe però un’altra ingiustizia il non riconoscere i vantaggi prodotti da quel Vocabolario, malgrado il difetto essenziale, e le conseguenti imperfezioni di cui abbiamo dato qualche cenno,

D’un metodo falso non si possono certamente fare, che applicazioni viziose; ma non tutte nello stesso grado, potendocene essere di quelle che, e producano minori inconvenienti, e prestino occasione a qualche speciale utilità. E nel caso nostro, data, quella legge di cavar dagli scritti la materia del Vocabolario, il partito preso dagli Accademici della Crusca, e del quale fu dato loro tanto carico, quello cioè di restringersi quasi unicamente agli scritti d’un solo idioma, era per l’appunto il solo che adempisse le due condizioni accennate.

Da una parte, ognuno può vedere quanto sarebbe stato, non dirò più lontano dal fine di rappresentare, al possibile, nel Vocabolario una lingua intera e omogenea, ma opposto direttamente al fine medesimo, l’accrescere quel repertorio con gli scritti dell’altre province d’Italia. Per darne un piccolo esempio; si pensi che sorte di mescuglio ne sarebbe venuto se insieme con le storie di Dino Compagni e di Giovanni Villani, si fosse ammessa per testo di lingua, la Vita di Cola di Rienzo scritta dall’anonimo, suo contemporaneo, romano o napoletano che fosse, e la storia di Milano «in italico idioma composta da Bernardino Corio» uno, peraltro, degli uomini dotti del suo tempo.

Perciò che riguarda l’altra parte, dall’aver presi gli esempi per il Vocabolario, da scritti quasi tutti toscani, ne seguì che in esso si trovò raccolto non poco dell’Uso toscano vivo, non solo al tempo di quella compilazione, ma anche al nostro; perchè l’Uso, dovendo servire una comunicazione non interrotta d’idee in una società, è costretto, per dir così a conservare molto più di quello che possa mutare. E una ragione per cui dagli scritti toscani c’era da raccogliere una incomparabilmente maggiore e più certa parte d’un Uso vero e permanente, è che la più parte de’ loro autori gli avevano dettati in una lingua non adottiva, come gli autori d’altre province, ma nativa, quella che adopravano in tutte le occorrenze della vita, insomma la lingua loro; principiando da quello che, nella città Dite, avendo parlato con Virgilio, destò l’attenzione d’un Fiorentino, ch’era tra que dannati, e che gli disse:

  1. Horat. Epist. I, 10, 24.