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sulla lingua italiana 635

che contradica a un’altra, ma semplicemente un’autorità che incontra (cosa affatto naturale) dei limiti. Limiti, del rimanente, che l’Uso medesimo potrà abbattere; in vari casi; o smettendo affatto, o adottando interamente questa o quella voce su cui cade il dubbio; mentre le opposizioni che esistono tra gli scritti, a cui quella Prefazione attribuisce l’autorità, sono perpetue e irremovibili.

Il non riconoscere la vera e unica autorità ed efficienza dell’Uso fa poi nascere i più falsi concetti per spiegare i fatti che da quella sola ricevono la loro vera spiegazione. Ne cito un esempio che mi cade, per dir così, tra’ piedi, venendo subito dopo il passo della prefazione citato in ultimo. Tra vari generi di voci registrate nel Vocabolario, ma da non potersi adoprare in ogni maniera di scrittura, gli autori ne annoverano uno, di «voci per troppa età rancide e perciò disusate». E poco dopo: «voci, che a guisa delle antiche fogge per la loro vecchiezza non si adoperano più».

C’è qui una supposizione manifestamente erronea, cioè che il cader le parole in disuso sia un effetto del tempo. Le voci mezzo, cammino, nostro, vita, ritrovarsi, selva, oscuro, diritto, via, smarrito, che sono nella prima terzina della Divina Commedia, hanno da questo fatto stesso l’attestato della loro antichità, e non so chi ne potesse citare di più vive e verdi. Lo stesso si può dire delle voci pane, acqua, cielo, terra, vivere, morire, amare, credere, e di migliaia d’altre, anzi della massima parte delle voci, e toscane e comuni a tutta l’Italia. In genere, crederei potersi dire che le voci più necessarie, come sono le più vecchie, sono anche quelle che l’uso cambia meno, appunto per il bisogno continuo che ne ha. Quelle che sono disusate lo sono perchè l’Uso, qualunque ne sia stato il motivo, le ha smesse. La cagione prossima e efficiente è compresa nel vocabolo che esprime il fatto, perchè sono una cosa sola.

Sarebbe una somma ingiustizia, il non osservare quanta parte della differenza che s’è notata o accennata tra i due Vocabolari, sia provenuta da una importante differenza tra le condizioni dei due popoli.

L’Uso vivente della lingua di Parigi, che era insieme, e diffuso in tutta la Francia, e nelle città particolarmente, dagli atti pubblici d’ogni genere, e venuto a imparare nella sua sede da una quantità di Francesi d’ogni provincia; Uso che, per non dirne ora altro, era anche quello d’una corte dalla quale la nazione riceveva gli esempi, come gli ordini; un tale Uso, non dirò si raccomandava, ma s’imponeva a chi volesse fare un Vocabolario. E dovutolo ammettere, non poteva venire in mente a nessuno di dargli, ad arbitrio e come per favore, un qualche posticino qua e là, aspettando per il rimanente, la sanzione di scrittori avvenire. Sarebbe stato un fare aspettar troppo un troppo piccolo benefizio.

L’Uso toscano invece, appunto perchè privo di tali e d’altri simili mezzi d’esercitare un’autorità sulle altre città d’Italia, non ne aveva una bastante, nè per costringere gli autori del Vocabolario a prenderlo per loro unica norma, nè per darne loro il coraggio. Quella qualunque superiorità che pure si concedeva a quella lingua, era venuta dall’essere state scritte in essa le prime grandi opere volgari; e di lì era venuta ugualmente l’usanza di chiamar toscano il linguaggio, o piuttosto la mescolanza di locuzioni che s’adopravano per intendersi, sia in iscritto, sia a voce, tra italiani di diverse province. È vero che una tale usanza implicava logicamente il riconoscimento d’un titolo speciale, anzi unico, che appartenesse al toscano effettivo, d’essere la lingua comune d’Italia; ma, mancando gli stimoli d’un altro genere, per spingere le menti all’applicazione il nome era, come accade in tanti altri casi, e mantenuto e inefficace. Se i compilatori del Vocabolario avessero pensato a prevalersene per formarlo