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sulla lingua italiana 629

taire: «Il primo libro di genio che si vede in prosa, fu la raccolta delle Lettere Provinciali, nel 1654. Comprendono ogni genere d’eloquenza. Non c’è in esse un vocabolo che in cento anni, sia stato soggetto al cambiamento che altera spesso le lingue vive. A quell’opera si deve riferire l’epoca della fissazione del linguaggio1». E in qual lingua furono scritte le Provinciali? In quella naturalmente che era richiesta, anzi imposta, dallo scopo del loro autore. Voleva il Pascal portare davanti al pubblico, delle questioni trattate da pochi e per pochi, e la più parte in latino; doveva, per conseguenza, scrivere nella lingua del pubblico.

Sarebbe una cosa facile, ma anche non necessaria, l’aggiungere altri esempi di questo genere; e si poteva anche, far di meno degli addotti, per chi voglia osservare che, non c’essendo nel fatto, nè riguardo alla materia, nè per conseguenza, riguardo ai vocaboli, una separazione naturale e necessaria tra una lingua ad uso delle persone di Lettere, e una all’uso giornaliero delle persone civili, non ci può essere in un tale concetto una regola per comporre il vocabolario di cui l’Italia ha bisogno. Se una lingua, propria esclusivamente degli scritti, fosse possibile a questi tempi, vorrebbe dire, come fu nel medio evo, una società incolta e una letteratura morta.

Ma siccome la Relazione di Firenze allega un esempio, per dimostrare col fatto la possibilità d’una tale separazione, così divien necessario l’esaminare se un tale esempio possa fare al caso. Trascrivo qui di novo le parole relative ad esso, che sono state citate sopra, in un brano più esteso

«Da questi documenti è facile, procedendo per eliminazione, cavare la vera lingua parlata e da parlarsi, aggiungendo a schiarimento ed ajuto, alcune brevi dichiarazioni e frasi opportunamente scelto da’ Toscani periti nel parlare nativo non illustre e non plebeo: a guisa che è stato fatto, e a noi può servire d’esempio, dall’Accademia di Francia.»

Certo, non se ne potrebbe prendere uno migliore. Ma confesso di non vedere come possa quadrare alla raccolta proposta nella Relazione citata, e proposta come qualcosa di diverso dall’intero Dizionario d’una lingua.

Dei due estremi indicati in quella, come esclusi dal Dizionario dell’Accademia Francese, l’illustre e il plebeo, il secondo presenta un senso chiaro e netto. Per «Plebeo», intende ognuno un numero di locuzioni usate dalla parte più rozza della popolazione, e che questa parte medesima è tanto lontana dal voler imporre alle persone civili, quanto queste sarebbero fontane dall’accettarle. La difficoltà, per me almeno, è quella di trovare nel francese un’espressione corrispondente al vocabolo «Illustre» adoprato in quella Relazione a significare l’altro estremo, che sarebbe ugualmente escluso dal Vocabolario destinato all’uso delle persone civili.

Questo vocabolo, in materia di lingua, è tutto nostro, e venuto da una teoria tutta nostra ugualmente, e, secondo la quale, la lingua italiana sarebbe un fatto sui generis, e credo unico al mondo, dove delle lingue ce n’è pur tante; un fatto che noi non abbiamo imitato da nessuno, e che a

  1. Voltaire, Siècle de Louis XIV, Chap. XXXII. L’ultima di quelle proposizioni sarebbe in aperta contradizione, e coi fatti, e con altre parole del testo medesimo, se s’avesse a intendere secondo la lettera, cioè che una lingua possa rimaner fissa. Ma forse il Voltaire volle dire che, da quell’epoca, divenne più generale e permanente presso gli scrittori la consuetudine d’uniformarsi all’Uso: cosa che s’accorda benissimo e con la continuità e con la mutabilità parziale delle lingue. In altri termini, l’Uso dura cambiandosi successivamente in minime parti.