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vire che a trattare d’alcune materie determinate, e ad essere adoperata in un solo genere di componimenti.

Rispondono naturalmente di no, ma aggiungendo che non vedono cos’abbia a fare con la questione una tale domanda.

Aprano dunque il libro De Vulgari Eloquio al capitolo secondo del libro secondo, e troveranno, verso la metà, che «essendo questo Volgare Illustre l’ottimo tra i volgari; ne segue che le sole cose ottime siano degne d’esser trattate da esso.» Unde cum hoc quod dicimus Illustre sit optimum aliorum vulgarium, consequens est ut sola optima digna sint ipso tractari.

Passa poi subito a dichiarare quali siano quelle cose ottime; ed ecco in succinto la sua dottrina intorno a ciò.

L’uomo ha in certo modo tre vite (homo tripliciter spirituatus est): la vita vegetale, l’animale e la razionale; e ha quindi tre tendenze. Secondo la vita vegetale, cerca l’utile; secondo l’animale, il dilettevole; secondo la razionale, l’onesto. E siccome in ciascheduno di questi tre oggetti ci sono e delle cose più grandi, e delle grandissime; così queste ultime devono esser grandissimamente trattate, e per conseguenza nel grandissimo volgare. Le tre cose grandissime poi sono: nell’utile la salute; nel dilettevole la venere; nell’onesto la virtù. In ciascheduna poi di queste tre cose stesse, ce n’è una relativamente grandissima: cioè prima il valore nell’armi; nella seconda il più alto grado dell’amore; nella terza la rettitudine della volontà. E queste sono le materie da esser trattate col grandissimo volgare. Quare hoc trio, Salus videlicet, Venus, Virtus apparent esse illa magnalia, quæ sint maxime pertractanda, hoc est ea quæ maxima sunt ad ista, ut armorum probitas, amoris ascensio et directio voluntatis.

Se il sillogismo non è diventato una bugia; se quella che hanno accettata, e per forza, è una maggiore; se le parole citate ora formano la sua minore; anche gli oppositori hanno detto che, per Volgare Illustre, Dante non ha intesa una lingua.

Cos’ha inteso dunque? mi si domanda.

È un’altra questione, e alla quale non son tenuto di rispondere; perchè la mia tesi è puramente negativa, e credo d’averla dimostrata. Però, se il sostituire il fatto vero all’immaginato non è necessario a una dimostrazione di questo genere, può esser utile a render più compita la cognizione della cosa. E del rimanente, il libro in questione ce ne dà il mezzo tanto pronto, quanto sicuro. Perchè, subito dopo le parole citate in ultimo, vi leggiamo: «Delle quali tre cose troviamo aver poetato in volgare gli uomini illustri, cioè Bertrando de Born, le armi; Arnaldo Daniel, l’amore; Girardo de Borneil, la rettitudine; Cino da Pistoja, l’amore; il suo amico (Dante medesimo) la rettitudine.» E cita di ciascheduno il primo verso d’una canzone.

Qui, senza fermarci su quella mescolanza di tre trovatori perigordini con due poeti italiani, cosa che esclude l’intenzione di parlare d’una lingua speciale, troviamo anche un indizio della cosa, di cui Dante intende parlare, cioè del linguaggio della poesia, anzi d’un genere particolare di poesia.

E l’indizio è tutt’altro che vano, poichè immediatamente dopo, viene il terzo capitolo, in cui «si distinguono i modi del poetare in volgare,» e sono «canzoni, ballate, sonetti e diversi altri modi legittimi e irregolari, come si mostrerà in appresso.»

Si passa poi a dichiarare che, essendo la canzone l’eccellentissimo di que’ modi, si deve in essa usare l’eccellentissimo volgare. E di quella preminenza si assegnano più ragioni; perchè, quantunque ogni cosa scritta