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prio, spiccato e, per dir così, personale? E non è dunque in questo, cioè nel non essere imitatori, che, anche secondo voi altri, è ragionevole l’imitarli?
Le ragioni del sistema romantico, per escludere la mitologia e l’imitazione, sono, com’Ella ha certamente veduto, molto consentanee tra di loro. E consentanee ugualmente all’une, e all’altre sono le ragioni per sbandire le regole arbitrarie, e specialmente quella delle due unità drammatiche. Di queste non Le parlerò: forse ne ho anche troppo ciarlato in stampa; e non so s’io deva o dolermi o rallegrarmi di non avere una copia da offrirle d’una mia lettera1 pubblicata in Parigi su questo argomento; lettera, alla lunghezza della quale spero che non arriverà questa, della quale, per dir la verità, principio a vergognarmi. Ma la bontà ch’Ella m’ha dimostrata, mi fa animo, e tiro avanti.
Intorno alle regole generali, ecco quali furono, se la memoria non m’inganna, le principali proposizioni romantiche. Ogni regola, per esser ricevuta da uomini, debbe avere la sua ragione nella natura della mente umana. Dal fatto speciale, che un tale scrittor classico, in un tal genere, abbia ottenuto l’intento, toccata la perfezione, se si vuole, con tali mezzi, non se ne può dedurre, che quei mezzi devano pigliarsi per norma universale, se non quando si dimostri, che siano applicabili, anzi necessari in tutti i casi d’ugual genere; e ciò per legge dell’intelletto umano. Ora, molti di quei mezzi, di quei ritrovati messi in opera dai classici, furono suggeriti ad essi dalla natura particolare del loro soggetto, erano appropriati a quello, individuali per così dire; e l’averli trovati in quella occorrenza, è un merito dello scrittore, ma non una ragione per farne una legge; anzi è una ragione per non farnela. Di più, anche nella scelta dei mezzi, i classici possono avere errato; perchè no? e in questi casi, invece di cercare nel fatto loro una regola da seguire, bisogna osservare un fallo da evitarsi. A voler dunque profittare con ragione dell’esperienza, e prendere dal fatto un lume per il da farsi, si sarebbe dovuto distinguere nei classici ciò, che è di ragione perpetua, ciò, che è di opportunità speciale. Se questo discernimento fosse stato tentato e eseguito da de’ filosofi, converrebbe tener molto conto delle loro fatiche, senza però ricevere ciecamente le loro decisioni. Ma invece questa provincia è stata invasa, corsa, signoreggiata quasi sempre da retori estranei affatto agli studi sull’intelletto umano; e questi hanno dedotte dal fatto, inteso come essi potevano, le leggi che hanno volute, hanno ignorate, o repudiate le poche ricerche de’ filosofi in quella materia, o se ne sono impadroniti, le hanno commentate a loro modo, traviate, o anche qualche volta hanno messo sotto il nome e l’autorità di quelli le loro povere e strane prevenzioni. Ricevere senza esame, senza richiami, leggi di tali, e così create, è cosa troppo fuori di ragione. E quale in fatti, aggiungevano i Romantici, è l’effetto più naturale del dominio di queste regole? Di distrarre l’ingegno inventore dalla contemplazione del soggetto, dalla ricerca dei caratteri propri e organici di quello, per rivolgerlo e legarlo alla ricerca e all’adempimento di alcune condizioni affatto estranee al soggetto, e quindi d’impedimento a ben trattarlo. E un tale effetto non è forse troppo manifesto? Queste regole non sono forse state per lo più un inciampo a quelli, che tutto il mondo chiama scrittori di genio, e un’arme in mano di quelli, che tutto il mondo chiama pedanti? E ogni volta che i primi vollero francarsi di quell’inciampo, ogni volta che, meditando