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Quello che i romantici combattevano, è il sistema d’imitazione, che consiste nell’adottare e nel tentare di riprodurre il concetto generale, il punto di vista dei classici, il sistema, che consiste nel ritenere in ciascun genere d’invenzione il modulo, ch’essi hanno adoprato, i caratteri che ci hanno impressi, la disposizione, e la relazione delle diverse parti; l’ordine e il progresso de’ fatti, ecc. Questo sistema d’imitazione, dei quale ho appena toccati alcuni punti; questo sistema fondato sulla supposizione a priori, che i classici abbiano trovati tutti i generi d’invenzione, e il tipo di ciascheduno, esiste dal risorgimento delle lettere; forse non è stato mai ridotto in teoria perfetta, ma è stato ed è tuttavia applicato in mille casi, sottinteso in mille decisioni, e diffuso in tutta la letteratura. Basta osservare un solo genere di scritti, le apologie letterarie: quasi tutti coloro, che hanno perduto il tempo a difendere i loro componimenti contro coloro, che avevano perduto il tempo a censurarli, hanno allegati gli esempi e l’autorità dei classici, come la giustificazione più evidente, e più definitiva. Non è stato ridotto in teoria; e questa appunto è forse la fatica più gravosa e la meno osservata di quelli, che vogliono combattere idee false comunemente ricevute, il dover pigliarle qua e là, comporle, ridurle come in un corpo, metterci l’ordine, di cui hanno bisogno per combatterle ordinatamente. Non è stato questo sistema né ragionato, né provato, né discusso seriamente; anzi, a dir vero, si sono sempre messe in campo e ripetute proposizioni, che gli sono opposte; sempre si è gettata qualche parola di disprezzo contro l’imitazione servile, sempre si è lodata e raccomandata l’originalità; ma insieme si è sempre proposta l’imitazione. Si è insomma sempre predicato il pro e il contro, come meglio tornava al momento, senza raffrontarli mai, né stabilire un principio generale. Questo volevano i Romantici che si facesse una volta; volevano che, da litiganti di buona fede, si definisse una volta il punto della questione, e si cercasse un principio ragionevole in quella materia; chiedevano, che si riconoscesse espressamente, che, quantunque i classici abbiano scritte cose bellissime, pure né essi né verun altro non ha dato, né darà mai un tipo universale, immutabile, esclusivo di perfezione poetica. E non solo mostrarono in astratto l’arbitrario e l’assurdo di quel sistema d’imitazione, ma cominciarono anche a indicare in concreto molte cose evidentemente irragionevoli introdotte nella letteratura moderna per mezzo dell’imitazione de’ classici. E per esempio, sarebbe egli mai, senza un tal mezzo, venuto in mente a de’ poeti moderni di rappresentar de’ pastori, in quelle condizioni e con que’ costumi che si trovano nelle egloghe, o nei componimenti di simil genere, dal Sannazaro al Manara, se, prima di quello, o dopo questo, non ci furono altri poeti bucolici, o ignorati o dimenticati da me? E perché dall’imitazione cieca e, per dir così materiale, si sdrucciola facilmente nella caricatura, avvenne, una mattina, che tutti i poeti italiani, voglio dire quelli che avevano composti, o molti, o pochi versi italiani, si trasformarono, loro medesimi (idealmente s’intende) in tanti pastori, abitanti in una regione del Peloponneso, con de’ nomi, né antichi, né moderni, né pastorali, né altro; e in quasi tutti i loro componimenti, di qualunque genere, e su qualunque soggetto, parlavano, o ficcavano qualche cenno delle loro gregge e delle loro zampogne, de’ loro pascoli e delle loro capanne. E una tale usanza poté, non solo vivere tranquillamente per una generazione, ma tener duro contro le così frizzanti e così sensate canzonature del Baretti, e sopravvivere anche a lui.

Profittando poi, com’era facile in ogni cosa, delle contradizioni de’ loro avversari, dicevano i Romantici: Non siete voi quelli che, ne’ classici, lodate tanto l’originalità, quell’avere ognuno di loro, un carattere pro-