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renze, nè in quelle formole convenute, che la ragione non intende o smentisce, e delle quali la prosa si vergognerebbe; ma nell’ultimo vero, in cui l’intelletto riposa.
Insieme con la mitologia vollero i Romantici escludere l’imitazione dei classici; non già lo studio, come volle intendere la parte avversaria. Se ho bene intesi gli scritti, e i discorsi di alcuni di loro, nessuno di essi non sognò mai una cosa simile. Sapevano troppo bene (e chi l’ignora?), che l’osservare in noi l’impressione prodotta dalla parola altrui c’insegna, o per dir meglio, ci rende più abili a produrre negli altri delle impressioni consimili; che l’osservare l’andamento, i trovati, gli svolgimenti dell’ingegno altrui è un lume al nostro; che questo, ancor quando non metta direttamente un tale studio nella lettura, ne resta, senza avvedersene, nutrito e raffinato; che molte idee, molte immagini, che approva e gusta, gli sono scala per arrivare ad altre talvolta lontanissime in apparenza; che insomma per imparare a scrivere giova il leggere, e che questa scola è allora più utile, quando si fa sugli scritti d’uomini di molto ingegno e di molto studio, quali appunto erano, tra gli, scrittori che ci rimangono dell’antichità, quelli che specialmente sono denominati classici.
Non cessarono quindi di protestare contro il carico che si dava loro, con quella falsissima interpretazione, di vilipendere i classici, e di riguardare gli scritti che ce ne rimangono, come anticaglie da mettersi da parte. Anzi non trascurarono l’occasioni, non solo di lodarli in genere, ma di notare in essi dei pregi, che non erano stati indicati dai loro più fervidi ammiratori. Taluno perfino lodò quelle bellezze in molto bei versi; ne riprodusse alcune traducendole, e con una tale riuscita, che, chi pretendesse d’avere pei classici un’ammirazione più sentita della sua, mostrerebbe una grande stima non solo di questi, ma di sè medesimo.1
- ↑ Sulla poesia, Sermone di Giovanni Torti. — Trascrivo qui, e credo di poter aggiungere anche qui: in prova, la versione del discorso d’Ettore a Andromaca, nel sesto dell’Iliade.
«Ahi che il sacro Ilio (esclama) e l’alta rocca,
«E la casa di Priamo un dì cadranno!
«Ma null’altra, ti giuro, il cor mi tocca
«Sì acerba cura: non de’ Teucri il danno,
«E non il padre, non la madre o i forti
«Fratei, che molti allor sotterra andranno;
«Come, o donna, il tuo pianto e l’aspre sorti
«Che t’aspettan, se alcun Greco ti prenda,
«E prigioniera in Argo il mar ti porti.
«Tacita allora converrà che penda
«Dal cenno insultator d’una straniera,
«E a portar acqua e a tesser tele intenda.
«E mentre îndarno repugnante e fiera,
«Pregno inclinando di lagrime il ciglio,
«Alla fortana obbedirai l’altera;
«Alcun dirà: D’Ettore a Priamo figlio
«La consorte è colei; di quel che sempre
«Era fra i teucri eroi primo al periglio,
«Allor verrà che di più crude tempre
«Dolor ti cruci, e che del tuo diletto
«Più intenso desiderio il cor ti stempre,
Disse, e le mani stese al pargoletto,
Che l’armi paventando e le criniere
Terribili, ondeggianti in sull’elmetto,
Fe’ d’un grido risposta al cavaliere,
E rifuggì della natrice al seno
Dalle sembianze inusitate e fiere.
Parve sul volto allor quasi un baleno
Ai duo parenti il riso; Ettor si sciolse
L’elmo, e raggiante il pose in sul terreno;
Poi nelle braccia il bambinel si tolse,
Baciollo, e a Giove e agli altri Numi in questi
Detti, alzandolo al cielo, il prego volse:
«O Giove sommo, e voi tutti, o celesti,
«Deh vogliate che forte, e di me degno,
«Dopo di me questo mio figlio resti;
«Che un dì possente abbia de’ Teucri il regno,
«Che apportator di fuga e di terrore
«Sia fra’ nemici, a’ suoi gloria e sostegno;
«Deh fate che tornando ei vincitore,
«V’abbia chi dica: Più che il padre ei vale;
«E ne gioisca della madre il core.