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forza erculea, un aspetto marziale, degli auguri sinceri, e una bella quantità d’altre locuzioni prettamente mitologiche. — A questo era facile il rispondere che l’istituzioni, l’usanze, l’opinioni che hanno regnato lungo tempo in una o più società, lasciano ordinariamente nelle lingue, delle tracce della loro esistenza passata, e ci sopravvivono con un senso acquistato per mezzo dell’uso, e reso indipendente dalla loro origine: la stessa risposta che si darebbe a chi venisse a dire: o rimettete in onore l’astrologia, o bandite dal linguaggio i vocaboli: influsso, ascendente, disastro, e altri derivati dalla stessa fonte.
Ma la ragione, per la quale io ritengo detestabile l’uso della mitologia, e utile quel sistema che tende ad escluderla, non la direi certamente a chiunque, per non provocare delle risa, che precederebbero, e impedirebbero ogni spiegazione; ma non lascerò di sottoporla a Lei, che, se la trovasse insussistente, saprebbe addirizzarmi, senza ridere. Tale ragione per me è, che l’uso della favola è idolatria. Ella sa molto meglio di me, che questa non consisteva soltanto nella credenza di alcuni fatti naturali e soprannaturali: questi non erano che la parte storica; ma la parte morale era fondata nell’amore, nel rispetto, nel desiderio delle cose terrene, delle passioni, de’ piaceri portato fino all’adorazione, nella fede in quelle cose come se fossero il fine, come se potessero dare la felicità, salvare. L’idolatria in questo senso può sussistere anche senza la credenza alla parte storica, senza il culto; può sussistere purtroppo anche negli intelletti persuasi della vera Fede: dico l’idolatria, e non temo di abusare del vocabolo, quando San Paolo l’ha applicato espressamente all’avarizia, come ha anche chiamato Dio de’ golosi il ventre.
Ora cos’è la mitologia conservata nella poesia, se non questa idolatria? E qual prova più espressa se ne potrebbe desiderare, di quella che ne danno gli argomenti sempre adoprati a raccomandarla? La mitologia, si è sempre detto, serve a rappresentare al vivo, e rendere interessanti le passioni, le qualità morali, anzi le virtù. E come fa questo la mitologia? Entrando, per quanto è possibile, nelle idee degli uomini, che vedevano un dio in ognuna di quelle cose; usando del loro linguaggio, tentando di fingere una credenza a ciò, che quelli credevano; ritenendo in somma dell’idolatria tutto ciò che è compatibile con la falsità riconosciuta di essa. Così l’effetto generale della mitologia non può essere, che di trasportarci alle idee di que’ tempi in cui il Maestro non era venuto, di quegli uomini che non ne avevano nè la previsione, nè il desiderio; di farci parlare anche oggi, come se Egli non avesse insegnato, di mantenere i simboli, l’espressioni. le formule dei sentimenti ch’Egli ha inteso distruggere; di farci lasciar da una parte i giudizi ch’Egli ci ha dati delle cose, il linguaggio che è la vera espressione di quei giudizi, per ritenere le idee e i giudizi del mondo pagano. E non si può dire che il linguaggio mitologico, adoperato com’è nella poesia, sia indifferente alle idee, e non si trasfonda in quelle che l’intelletto tiene risolutamente e avvertitamente. E perchè dunque si farebbe uso di quel linguaggio, se non fosse per affezione a ciò che esprime? se non fosse per produrre un assentimento, una simpatia? A che altro fine si scrive e si parla? Sia dunque benedetta la guerra che gli si è fatta, e che gli si fa; e possa diventare testo di prescrizione generale quel verso:
«Vate, scorda gli Achei, scorda le fole»
dettato in una particolare occasione da una illustre di Lei amica, la quale fu de’ pochissimi, che col fatto antivennero le teorie, cercando e trovando spesso così splendidamente il bello poetico, non in quelle triste appa-