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ch’io sappia fare; ma, oltre lo scopo di rappresentarne un concetto complessivo, Le confesso che l’onore ch’Ella m’ha fatto di toccarmi questo tasto, m’ha data la tentazione di sottoporle un qualche mio modo particolare di considerar la questione. M’ingegnerò di ridurre e una cosa e l’altra nei termini più ristretti che mi sarà possibile, e di fare almeno un abuso moderato della sua pazienza.

Ciò che si presenta alla prima a chi si proponga di formarsi il concetto, che ho accennato di quel sistema, è la necessità di distinguere in esso due parti principali: la negativa e la positiva.

La prima tende principalmente a escludere — l’uso della mitologia — l’imitazione servile dei Classici — le regole fondate su fatti speciali, e non su princìpi generali, sull’autorità de’ retori, e non sul ragionamento, e specialmente quella delle così dette unità drammatiche, di tempo e di luogo apposte ad Aristotele.

Quanto alla mitologia, i Romantici hanno detto, che era cosa assurda parlare del falso riconosciuto, come si parla dei vero, per la sola ragione, che altri, altre volte, l’hanno tenuto per vero; cosa fredda l’introdurre nella poesia ciò che non richiama alcuna memoria, alcun sentimento della vita reale; cosa noiosa il ricantare sempre questo freddo e questo falso; cosa ridicola ricantarli con serietà, con un’aria reverenziale, con delle invocazioni, si direbbe quasi ascetiche.1

I Classicisti hanno opposto che, levando la mitologia, si spogliava la poesia d’immagini, le si levava la vita. I Romantici risposero che le invenzioni mitologiche traevano, al loro tempo, dalla conformità con una credenza comune, una spontaneità, una naturalezza, che non può rivivere nelle composizioni moderne, dove stanno a pigione. E per provare che queste possono vivere (e di che vita!) senza quel mezzo, ne citavano le più lodate, nelle quali, la mitologia fa bensì capolino, ora qua, ora là, ma come di contrabbando e di fuga, e ne potrebbe esser levata, senza che ne fosse, né sconnessa la compagine, né scemata la bellezza del lavoro. Citavano, dico, specialmente la Divina Commedia e la Gerusalemme, nelle quali tiene una parte importante, anzi fondamentale, un maraviglioso soprannaturale, tutt’altro che il pagano; e le rime spirituali del Petrarca, e le politiche, e le rime stesse d’amore; e l’Orlando dell’Ariosto, dove invece di dei e di dee, vengono in scena maghi e fate, per non parlar d’altro. E citavano insieme varie opere straniere, che godono un’alta fama, non solo ne’ paesi dove nacquero, ma presso le persone colte di tutta l’Europa.

Un altro argomento de’ Classicisti era, che nella mitologia si trova involto un complesso di sapientissime allegorie. I Romantici rispondevano che, se, sotto quelle fandonie, c’era realmente un senso importante e ragionevole, bisognava esprimer questo immediatamente; che, se altri, in tempi lontani, avevano creduto bene di dire una cosa per farne intendere un’altra, avranno forse avute delle ragioni che non si vedono nel caso nostro, come non si vede perché questo scambio d’idee imma-

  1. Fu una vera disgrazia (letteraria, s’intende) che nessuno di loro, o sapesse, o si rammentasse che lo stesso giudizio era stato espresso, quasi con gli stessi termini, da un uomo la di cui autorità avrebbe sbalorditi, per un momento, gli avversari. È il Tasso che parla, nel primo Discorso dell’Arte Poetica: «E quanto quel maraviglioso (se pur merita tal nome) che portan seco i Giovi e gli Apollini e gli altri numi de’ Gentili, sia non solo lontano da ogni verisimile, ma freddo ed insipido, e di nessuna virtù, ciascuno di mediocre giudicio se ne potrà facilmente avvedere, leggendo que’ poemi che sono fondati sopra la falsità dell’antica religione.»
    Cì vollero però due secoli e mezzo circa, perchè la maggior parte de’ poeti e de’ lettori di poeti se ne avvedessero.