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Da tutto il detto fin qui intorno alle disposizioni della legge, in ciò che tocca la nostra particolare controversia, resulta, mi pare chiaramente, che il significato da Lei attribuito a quelle, si fonda unicamente, come avevo accennato da principio, sulla supposizione di un diritto di proprietà inerente alla pubblicazione degli scritti, e che, nel caso attuale, sarebbe devoluto al Pubblico.

Pare bensì ch’Ella voglia escludere il concetto dell’inerenza d’una proprietà nella cosa medesima, dove fa dire alla legge: Io creo una specie di proprietà che finora non esisteva; dove dice che «la così detta proprietà letteraria è una mera creazione della legge;» e più ancora dove dimostra espressamente che la cosa non è capace di proprietà. Ma mi permetta di dire di novo, che, volendo stabilire il libero diritto di riprodurre l’opere altrui quando ciò non è vietato da una legge; sull’esser queste nel pubblico dominio, viene necessariamente a ammettere, in questa maniera, una proprietà anteriore alla legge medesima. E che altro potrebbe Ella voler dire, dicendo che, prima della legge, lo scritto su cui verte la causa «era giuridicamente res nullius, apparteneva al pubblico?»

«Nuova, strana proprietà, invero,» dic’Ella, parlando di quella che è da moltissimi attribuita agli autori. Ma non esito di dire che quella che s’attribuirebbe al pubblico ha qualcosa di più strano. Nella prima c’è almeno un’apparente, ma molto apparente analogia. L’autore che dice: mi hanno ristampata una mia opera, dice una cosa non falsa in un senso; e è facile il trasportare quel mia a un senso di vera proprietà. Ma quanto di più ci vuole per fare di quell’opera una cosa di pubblico dominio! S’intende benissimo che appartengano al pubblico dominio, i fiumi, per esempio; e che gli possano appartenere, per una legge, i terreni lasciati incolti per un dato spazio di tempo. Sono gli uni e gli altri materia di proprietà; e non c’è nessuno che possa dire: gli ho fatti io. Ma, s’intende ben più difficilmente che chi ha fatta l’opera si trovi a fronte un rigoroso proprietario, cioè il Pubblico, che gli dica: quest’opera è mia. Padrone però anche voi, di ripubblicarla; non perchè ne siete l’autore: questo non ci ha che fare; ma in quanto siete anche voi una parte di me, padrone universale.

Ma, per fortuna, il Pubblico non dice questo.

E veda quale altra strana conseguenza verrebbe nel nostro caso, da quella teoria.

Ella domanda se si possa dire che, ristampando, senza il permesso dell’autore, il romanzo in questione, il signor Lemonnier abbia commesso un furto. E io, persuaso, com’Ella ha potuto vedere, che qui non si tratta di proprietà, sono ben lontano dall’attribuire alla di lui azione un tal carattere. Credo solamente che sia incorso nella sanzione d’una legge fatta per tutelare un interesse legittimo contro delle speculazioni arbitrarie. Bensì, secondo quella teoria, i miei difensori e io saremmo le anime fuie, i rei, non d’un furto consumato, ma d’un tentativo di furto, cercando di sottrarre al pubblico dominio la roba sua.

Termino col ricapitolare l’osservazioni che ho avuto l’onore d’esporle.

In tesi generale,

Senza ricorrere a un supposto diritto di proprietà, un motivo d’equità evidente giustifica, anzi richiede una legge che riservi agli autori la facoltà esclusiva di ripubblicare le loro opere. Un tal motivo vale del pari, se non di più, per l’opere già state ripubblicate da altri, che per quelle che non siano in questo caso.

Una tal legge, non prescrivendo, che per l’avvenire, non produce