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vera, e sulla quale verrò a ragionare più tardi; e poi espone la prima nè termini che trascrivo:
«Una prima osservazione che balza ad occhi veggenti, si è che, secondo la nostra spiegazione, l’articolo 14 ha un senso filosofico, una ragione d’essere, siccome quello che si collega con tutta la teoria della proprietà letteraria; secondo quella degli avversari, l’articolo 14 non avrebbe altra motivazione che lo stat pro ratione voluntas; sarebbe un fatto isolato e senza alcuna connessione logica con un sistema giuridico qualunque: — Si comprende infatti benissimo che il legislatore, dopo avere dichiarato proprietà degli autori le opere che questi fossero per pubblicare; dopo aver permessa la ristampa di quelle che fossero già pubblicate, aggiunga, siccome condizione di questo permesso, che siffatte opere abbiano già avuto ristampe le quali provino nel Pubblico la coscienza e l’uso d’un diritto, d’un dominio. Tutto ciò si comprende; ma non si capisce punto il purchè il legislatore voglia limitare il permesso della riproduzione a quelle sole opere le quali, al momento preciso in cui egli ha parlato, si trovavano materialmente sotto i torchi. Nel primo caso (lo ripeto) v’ha una ragione; nel secondo non v’ha che l’arbitrio.»
Ma non è forse, per una legge, una ragione sufficiente, che dico? imperiosa, quella d’impedire un danno indebito che avrebbe cagionato essa medesima, con una proibizione incondizionata? Non prevedendo il caso in questione, la legge sarebbe stata cieca; non facendo un’eccezione per esso, sarebbe stata ingiusta. Non fu punto arbitrio; era dovere: non fu una volontà che prendesse il luogo d’una ragione; era una ragione che imponeva un obbligo alla volontà. E così essendo, come si potrà mai dare all’interpretazione riprodotta qui da me, la taccia di non avere «alcuna connessione logica con un sistema giuridico qualunque?» Oso anzi dire che l’ha con tutti. Certo non n’ha alcuna con la «teoria della proprietà letteraria,» della quale ho avuta e avrò di novo l’occasione di parlare; ma quando la spiegazione ch’Ella deduce da quella teoria non avesse altro inconveniente, che di lasciare senza alcun provvedimento il caso di quel povero stampatore, dando all’articolo un senso affatto diverso, mi pare che sarebbe da sè un forte motivo per non accettarla.
Mi pare anzi di poter aggiungere che un provvedimento così necessario sia da Lei indirettamente escluso dove, dopo aver posto che il legislatore volle tutelare, insieme coi diritti degli autori, il presunto diritto del Pubblico, premette che a questo secondo diritto avrebbe potuto provvedere in due diverse maniere; cioè «o statuire puramente e semplicemente che TUTTE le opere già pubblicate potrebbero essere liberamente riprodotte: oppure limitare questa libertà di riproduzione a quelle opere che, oltre all’essere già pubblicate dall’autore prima della emanazione della legge, eran già state oggetto di ristampa, a quelle opere che già la società aveva mostrato di considerare come cadute nel proprio dominio, col fatto caratteristico del riprodurle.» E posto ciò, Ella interpreta la mente del legislatore nel seguente modo:
«Fra cotesti due sistemi, il legislatore preferì saviamente il secondo. Reputò che il pubblico non fa atto di dominio sulle opere stampate se non se quando ne intraprende, ne vende, ne compra, ne commercia le ristampe. Un libro pubblicato dieci anni prima del 1848, ma non mai riprodotto, non fu usucapito dal pubblico, restò proprietà dell’Autore; un libro, invece, che, pubblicato alla stess’epoca, venne più volte edito, è fatto cosa pubblica, e tale vuole la legge che resti anche dopo la convenzione del 1840, dicendo che questa convenzione non farà