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rispettivi costituiscono una proprietà che appartiene a quelli che ne sono gli autori per goderne o disporne durante tutta la loro vita; eglino soli o i loro aventi causa hanno diritto di autorizzarne la pubblicazione.»
Qui la legge si serve della denominazione invalsa e abusiva, di proprietà; il che però non invalida punto legalmente, nè contradice logicamente le prescrizioni della legge medesima, sulle quali e Lei e io pretendiamo di fondare le nostre opposte ragioni.
Vengo dunque addirittura a esporle alcune riflessioni sul significato ch’Ella attribuisce alle prescrizioni del citato articolo, con queste parole:
«Che dice mai l’articolo primo? Esso afferma e stabilisce il principio generale, mercè cui gli autori avranno la proprietà letteraria, precisamente come faceva il decreto francese del 19 luglio 1793, come far deve qualunque legge sulla proprietà letteraria, per mettere in essere questa proprietà, la quale dalla legge, e solo dalla legge, ripete appunto l’essere suo. Ma nulla, nulla affatto dice l’articolo intorno al diritto degli autori sulle loro opere già pubblicate.»
A me pare in vece che dica molto, anzi tutto, dicendo appunto: «le opere pubblicate.» È vero che ci manca il già; ma non ce n’era bisogno; perchè la parola pubblicate comprende nel suo senso generalissimo le opere pubblicate in qualunque tempo da quelli che ne sono gli autori. Quello che una tal parola esclude affatto davvero, è il senso ch’Ella le vorrebbe attribuire, cioè: le sole opere che saranno pubblicate. Se tale fosse stata l’intenzione del legislatore, sarebbe anche stato così facile, così naturale e, direi quasi, cosi inevitabile il dire: L’opere che saranno pubblicate dal giorno della promulgazione della presente legge, costituiranno una proprietà de’ loro autori!
«E noi abbiamo veduto,» prosegue Ella, «nel precedente paragrafo quale interpetazione la giurisprudenza francese abbia costantemente data a quel decreto; interpretazione che, conforme alla massima generale di diritto, la quale non ammette retroattività nelle leggi, è la sola che deve evidentemente darsi alla patria legislazione.»
«Che se il nostro legislatore avesse voluto fare a siffatta regola di universale giurisprudenza una eccezione, se avesse inteso che le sue disposizioni dovessero applicarsi alle opere già edite non che all’inedite, e non si sarebbe per fermo limitato ad enunciare in generale la creazione da lui fatta della proprietà letteraria, ma avrebbe seguito l’esempio di quei legislatori che, nel Belgio ed in qualche Stato di Germania, esplicitamente statuirono questa deroga al comune diritto. L’avere egli conservato il silenzio, l’essersi contentato di dire: io creo una specie di proprietà che finora non esisteva, è la più manifesta e la più solenne delle prove ch’egli non intese far rimontare questa proprietà ad un’epoca anteriore al giorno in cui egli la creava.»
E perchè mai avrebbe il legislatore dovuto immaginarsi che, dicendo lui solamente: le opere pubblicate, si sarebbe potuto credere che voleva parlare, non di tutte, ma esclusivamente di quelle che fossero per pubblicarsi in futuro; quando la sola parola pubblicate, appunto perchè sola, aveva per sè la virtù d’indurre il primo significato e di chiuder l’adito al secondo ?
Perchè, dic’Ella, l’estendere il divieto anche all’opere già riprodotte, sarebbe stato fare un’eccezione a una regola d’universale giurisprudenza, «una deroga al comune diritto»; e diveniva perciò necessario avvertirne espressamente il Pubblico, per cui la legge era fatta.
Ma da nessuna parola della legge appare che il legislatore avesse una simile preoccupazione; e non si vede il perchè dovesse supporla nel Pubblico.