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appendice al capitolo terzo 561

l’espediente adoprato da Temistocle, ma non inventato da lui. E anche speculativamente, la dottrina che fa derivare la morale dall’utilità, era stata enunciata più d’una volta, ma o con asciutte sentenze, o con applicazioni limitate e parziali1. Quello che ci fu di novo, fu il ridurla a sistema, con un metodo chiamato e creduto da molti scientifico, e con un’apparenza, quantunque superficiale e incostante, d’unità e d’universalità. E chi sa dire quanta autorità possa, non solo dare, ma mantenere a un sistema l’essere sostenuto da degli scrittori, l’autorità de’ quali, in altri argomenti, s’è stabilita e si mantiene per bonissime ragioni?

Che se si dovesse (cosa, per fortuna, non richiesta in una questione accessoria) venire alle prove di fatto, noi crediamo che ci mancherebbe tutt’altro che la materia. Non so se ci sia mai stata un’epoca piena, quanto la presente, di fatti grandi e gravi, sia per questa o per quella

  1. Tra gli scrittori che presero l’utilità per norma suprema de’ loro giudizi nelle cose politiche, toccò al Machiavelli il tristo privilegio di dare il suo nome, in più d’una lingua, a una tale dottrina; anzi a una sola e speciale applicazione di essa; giacché i vocaboli derivati da quel nome furono destinati a significare esclusivamente l’uso della perfidia e, a un bisogno, della crudeltà, al fine di procurare l’utilità o d’uno, o d’alcuni, o di molti. Il giudizio implicito in que’ vocaboli non è vero che in parte. Il Machiavelli non voleva l’ingiustizia, sia astuta, sia violenta, come un mezzo nè unico, nè primario, ai fini proposti. Voleva l’utilità, e la voleva, o con la giustizia, o con l’ingiustizia, secondo gli pareva che richiedessero i diversi casi. E non si può dubitare che il suo animo non fosse inclinato a preferire la prima. Senza ricorrere al testimone della sua condotta, e come politico, e come privato, la cosa appare da’ suoi scritti medesimi: poichè, se nel lodare o nel consigliare l’ingiustizia, è sottile; nel maledirla, e nel lodare e consigliare il contrario, è anche eloquente e qualche volta affettuoso. Ne è un bel saggio il capitolo X del libro I de’ Discorsi sulle Deche di T. Livio, che ha per titolo: «Quanto sono laudabili i fondatori d’una repubblica o d’un regno, tanto quelli d’una tirannide sono vituperabili.»
    Più lontana dal vero, per tutti i versi, fu certamente l’opinione d’alcuni, i quali non videro delle massime inique, che in una sola opera del Machiavelli, cioè nel Principe; e per giustificarne l’autore, dissero che in quel libro non s’era proposto d’esporre i suoi veri sentimenti, ma di dare de’consigli pessimi a’ dominatori della sua repubblica, per farli cadere in un precipizio. Da una parte, la scusa sarebbe troppo peggiore del fallo. Strana maniera di purificare un insegnamento perverso, il farlo diventare anche un’impostura e un agguato! E strana retribuzione quella che dovesse portar rovina e infamia ai discepoli, lode e trionfo al maestro! Dall’altra parte, basta scorrere i Discorsi sulle Deche, per trovarci non di rado lodata e consigliata l’ingiustizia supposta utile. Così, dopo avere, nel Cap. XXI del libro III, mostrato con vari esempi, e segnatamente con quello di Scipione, quanto possano tornar utili, nelle cose di Stato, «gli atti d’umanità, di pietà, di castità, di liberalità,» passa l’autore, nel capitolo seguente, a cercare come mai Annibale abbia potuto, «con modi tutti contrari, cioè con violenza, crudeltà, rapina e ogni ragione d’infedeltà, fare il medesimo effetto in Italia che aveva fatto Scipione in Spagna;» e trova che l’una e l’altra di queste due condotte ha i suoi vantaggi e i suoi inconvenienti; e conchiude, «come non importa molto in qual modo un capitano si proceda, purchè in esso sia virtù grande che condisca bene l’uno e l’altro modo di vivere; perché, com’è detto, nell’uno e nell’altro è difetto e pericolo, quando da una virtù straordinaria non sia corretto.» E chi non sapesse che, per virtù, il Machiavelli, intende abilità e forza d’animo, non saprebbe raccapezzarsi come la virtù abbia a condire la violenza e quell’altre cose simili. E per citarne un altro esempio solo, nel Cap. XIII del libro II vuol dimostrare che «la fraude fu sempre necessaria ad usare a coloro che da piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire; la quale è meno vituperabile, quanto è più coperta.» E qui, se non m’inganno, si vede il perchè, nel Principe, dedicato a Lorenzo de’ Medici, che era appunto in un tal caso (e la dedica lo accenna), la fraude abbia molta più parte che ne’ Discorsi.
    Un così brutto mescuglio negli scritti d’un così grande ingegno non venne da altro che dall’aver lui messa l’utilità al posto supremo che appartiene alla giustizia. E quante mirabili cose non ci sono come offuscate da una troppo diversa compagnia! Quanta sagacità nel discernere e nel connettere le cagioni degli avvenimenti, nel vedere la concordanza o il contrasto tra gl’intenti degli uomini e la forza delle cose! Quanti consigli nobilmente avveduti, quanti umani e generosi intenti, in tutti quegli scritti, ogni volta che la giustizia c’è, o rettamente predicata, o semplicemente sottintesa! E che mirabile e feconda unità non si sarebbe formata ne’ concetti di quella mente, se quello della giustizia ci avesse sempre tenuto, o nell’una o nell’altra maniera, il suo posto!