Pagina:Opere varie (Manzoni).djvu/563


appendice al capitolo terzo 557

sia, non solo chiaro, ma noto independentemente dal sistema; il quale, per cercar la moralità, non si serve punto di esso, anzi lo esclude, e non si serve, non parla d’altro, che dell’interesse. Quindi, per trovar la concordia del dovere con questo, bisogna aver già d’altronde la cognizione del dovere. E se, quanto più s’esamini, cioè quanto più chiunque esamini addentro il soggetto, tanto più gli appare manifesta una tal concordia, bisogna che la cognizione del dovere sia affatto comune.

Quella proposizione implica ancora, che il concetto del dovere contenga la verità; altrimenti, come potrebbe trovarsi d’accordo con l’interesse, che è posto dal sistema come la suprema verità morale?

Ora, chi dice dovere, dice una ragione di fare o di non fare: se si sottrae al vocabolo questo significato, non gliene rimane veruno. E dice di più una ragione morale; giacchè, levato da quest’ordine d’idee, il vocabolo perde ugualmente ogni significazione.

Avremo dunque, mettendo insieme quella proposizione col sistema, una ragione morale del fare e del non fare, chiara, nota, vera, e alla quale non si deve ricorrere per la scelta del fare e del non fare, in ciò che riguarda la moralità. Riguardo a questa s’ha a prendere una tutt’altra norma, quella dell’interesse: il dovere non c’è, che per trovarsi d’accordo con esso. La sua essenza è di prescrivere; e, tanto secondo il Bentham, quanto secondo la ragion delle cose, prescrive sempre ciò che è a proposito: secondo la ragion delle cose, perchè è un’applicazione diretta della giustizia, principio supremo della morale; secondo il Bentham, perchè concorda sempre con l’interesse, principio supremo della morale; e con tutto ciò, non s’ha a far caso nessuno delle sue prescrizioni. È una verità che non può essere applicata alla sua propria materia, una regola di condotta (cos’altro sarebbe?) che non potrà mai esser regola di condotta.

In queste o simili contradizioni sono caduti necessariamente tutti gli altri scrittori che, ponendo per principio della morale l’utilità, non hanno poi potuto a meno di non dare un posto qualunque a de’ vocaboli esprimenti qualcheduna di quell’idee che appartengono davvero all’essenza della moralità. Tali idee, che tra di loro formano un bellissimo e pacatissimo ordine, trasportate in un ordine artifiziale e apparente di tutt’altre idee, ci portano uno scompiglio, una confusione stranissima; divengono inquiete, perturbatrici, in qualunque posto si mettano, perchè è della loro natura di volere il tutto. Vediamone un altro solo esempio.

«Chiunque ammette il principio dell’utilità,» dice un altro celebre scrittore, «ammette anche il principio del giusto e dell’ingiusto1

Ecco, come dicevamo, ciò che accade naturalmente, nel progresso della discussione, a chi pone per principio d’una scienza ciò che non lo è: ammetterne anche un altro, o degli altri; che è un contradire insieme e a sè stesso e alle leggi della ragione. Per principio s’intende una verità che includa virtualmente un ordine, un complesso di verità relativamente secondarie, che si possano cavar da essa, come conseguenze. Ogni principio quindi contempla un tutto, e comprende una serie intiera di conseguenze (quali e quante siano poi quelle che se ne ricavano in fatto); e c’è contradizione nel dire che due verità diverse possano essere insieme principi d’una scienza, cioè subordinare a sè tutte, e riguardo al numero, e riguardo all’essenza, le medesime conseguenze; giacchè, appunto per essere verità diverse, deve ciascheduna includerne delle sue proprie, non già opposte, ma diverse da quelle dell’altra.

So bene che alcuni negano che tutte le conseguenze d’un principio siano

  1. J. B. Say, Essai sur le principe de l’utilité, § I.