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appendice al capitolo terzo | 555 |
dicato nel deserto: non sarebbe stato creduto, perchè non sarebbe stato inteso; e non sarebbe stato inteso, per mancanza di materia intelligibile. Il vocabolo obbligazione, non trovando nelle menti il mezzo indispensabile per esser trasferito a un significato morale, non avrebbe destato in esse altro che il suo concetto proprio d’un legar materiale. Ma che dico? quest’ipotesi stessa è assurda: come mai sarebbe arrivato lui medesimo al concetto d’obbligazione morale, per imporlo agli altri, senza una causa relativa ad esso, e distinta e affatto diversa dalla sua persona? E si veda l’autore stesso, mentre vuol far nascere, e immediatamente, quel concetto dall’autorità del dottore, gli fa dire: «Io pronunzio che queste cose non sono giuste.» Ci mette di mezzo, senza avvedersene, l’idea della giustizia: e con questo, viene, per una di quelle, direi quasi, insidie della verità, a riconoscere implicitamente quella che, come passiamo a osservar brevemente, è la vera generazione logica del concetto d’obbligazione.
È un fatto, tanto manifesto quanto universale, che gli uomini applicano a un genere di cose l’idea di giustizia, e, per conseguenza, a un altro genere opposto l’idea negativa d’ingiustizia; e ciò per una speciale convenienza che trovano nell’une, e per una speciale repugnanza che trovano nell’altre. Trovano, per esempio, quella speciale convenienza, un naturale incontro, un affarsi e un comporsi tranquillamente di cose, nel mantenere i patti, nel rendere il deposito, nel rispettare la vita, la persona e la roba altrui, nel ricompensare il merito, e simili. Trovano quella speciale repugnanza e contradizione di cose nell’affermare ciò che si sa non esser vero, nel far suo l’altrui, o per forza o per arte, nel contraccambiare un benefizio con un’offesa, e simili. Quando poi tali cose si considerano in relazione col potere che l’uomo ha di farle o di non farle, di volerle o di rifiutarle, con atti del suo libero arbitrio, allora ciò che, riguardo all’intelletto, era semplicemente verità, cognizione, prende naturalmente, riguardo a quell’altra facoltà, la forma di legge. Ed ecco come. L’operazione alla quale l’uomo è eccitato in que’ casi, è quella di scegliere. E tra quali cose? Tra una conosciuta dall’intelletto come giusta, e un’altra come ingiusta. Ora, c’è contradizione nel dire che una cosa la quale si manifesta all’intelletto come repugnante, possa diventar conveniente riguardo alla volontà; in altri termini, che una cosa muti la sua essenza, passando dall’esser semplicemente conosciuta, a essere appetita. Rimane dunque che, delle due determinazioni, tra le quali l’uomo è messo in que’ casi, una sola può esser retta, quella cioè che è consentanea alla giustizia.
Ed è appunto questo esser l’uomo ridotto a non si poter determinar giustamente, che in una sola maniera; questo essere aperta alla rettitudine una sola delle due strade aperte al libero arbitrio; questo trovarsi la volontà soggetta a un comando, a un divieto, che può esser trasgredito col fatto, ma che ha in sè una ragione assoluta; è questo, dico, che s’intende significare col termine d’obbligazione morale, o con quello di dovere, o con qualunque altro vocabolo, o forma verbale s’adoperi a significare il concetto medesimo1. Ho detto, qualunque forma verbale, perchè a significare un concetto, o (per non andar senza bisogno nelle generali) a significar quello di cui si tratta, non è punto necessario un vocabolo che ne rappresenti l’essenza direttamente e in astratto, e sia per dir così, il suo nome proprio. Questo può esser nato molto tardi, da un’osservazione più avanzata, e per opera, sia de’ filosofi, sia della filosofia che lavora secretamente anche nelle teste degli uomini che non ne fanno professione. È un vocabolo utile senza dubbio, ma, come dico, non necessario;
- ↑ V. Rosmini, Filosofia del Diritto; Sistema morale, Sez. i, viii.