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554 | osservazioni sulla morale cattolica |
Quale argomento adduce il Bentham, per dimostrare che da questo arrogarsi un’autorità di sentenziare sulla giustizia o sull’ingiustizia di certe cose, sia nata la parola obbligazione, cioè sia entrato nelle menti il concetto d’obbligazione morale? Nessuno: lo dà per un fatto. È lui medesimo che, in questo caso, viene a dire: è così perchè io dico che è così. Eppure, se c’è qualcosa che abbia bisogno di prove, è certamente un fatto (lasciamo da una parte l’entità speciale di questo, che riguarderebbe un concetto così importante, così comune e così causale), è, dico, un fatto asserito per la prima volta da uno che sicuramente non ne fu testimone, e non ne potrebbe citar nessuno, nè vivo, nè morto; giacchè dove si trovano documenti o tradizioni d’un’epoca, in cui gli uomini non avessero il concetto dell’obbligazione morale?
In mancanza d’ogni prova di questo genere, ha almeno il Bentham tentato di dimostrare la necessità logica di quella supposta origine? Neppure; anzi si può credere che, se avesse intrapresa una tale ricerca, avrebbe messa quella supposizione da una parte; perchè si sarebbe dovuto accorgere che implicava contradizione.
Infatti, come mai, dall’aver sentiti, degli uomini affermare, con quanta prosopopea si voglia, che le tali e le tali cose non erano giuste, avrebbero degli altri uomini, ligi quanto si voglia all’autorità di quelli, potuto inferire che c’era obbligazione di non farle, se non avessero veduta o creduta vedere, se par meglio, una relazione tra la giustizia e l’obbligazione morale? Che un dottorone, per un’autorità conferitasi da sè medesimo, dica: Io pronunzio che queste cose non sono giuste; ergo non sono giuste; e degli uomini di testa debole ripetano docilmente: ergo non sono giuste; ci vedo un effetto possibilissimo del concorso di quelle due cause, presunzione degli uni, e deferenza degli altri. Ma perchè quest’altri vadano avanti e dicano: ergo c’è obbligazione di non farle, è proprio necessario l’intervento d’un’altra causa, cioè del concetto d’obbligazione morale, di cui quest’ergo è un’applicazione, e di cui i dottoroni non avevano neppur fatto cenno. La deferenza, quando non è regolata dalla ragione, può produrre de’ miserabili, e anche de’ perniziosissimi effetti; ma non degli effetti per i quali si richieda un’altra causa. E il Bentham (sia detto col riguardo dovuto al suo ingegno, ma con la libertà necessaria alla ricerca del vero) ha voluto far nascere il concetto dall’applicazione del concetto medesimo; che è quanto dire, l’istrumento dall’operazione, la possibilità dal fatto, la causa dall’effetto.
Che il vocabolo obbligazione, in senso morale, sia un traslato del verbo latino, obligo, non ne può nascer dubbio. Ma perchè un traslato ottenga il suo effetto, che è di far pensare una cosa, col nominarne un’altra, bisogna assolutamente che gli elementi necessari a costituire il novo concetto, o si trovino indicati nell’espressione adoprata a quest’ intento, o la mente gli abbia d’altronde. Ora il vocabolo legare non esprime che un’operazione, e sottintende, non solo qualcosa a cui quest’operazione si faccia, ma qualcosa che la faccia. E quindi nessuna mente potrebbe mai passare, per mezzo d’un tal vocabolo, a ideare l’effetto morale che s’intende per obbligazione, se non avesse l’idea di qualcosa che possa produrre quest’effetto nell’ordine della moralità. È evidente che l’autorità non è quest’idea, come suppone il Bentham. L’autorità, in quanto autorità, non fa altro che attestare: è una ragione estrinseca al concetto che pronunzia: potrà farlo accettare, a diritto o a torto, senza prove e senza dimostrazione; ma non può entrare a costituirlo. Se un dottore dommatico qualunque, col solo mezzo dell’Ipse dixit, e senza trovare preparato nelle menti l’elemento causale e necessario del concetto d’obbligazione, avesse detto addirittura: — Io pronunzio che siete obbligati a fare, o a non fare, — avrebbe pre-