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appendice al capitolo terzo | 549 |
con l’utilità privata. Pare anzi, che i seguaci stessi del sistema abbiano trovata quell’espressione d’utilità generale, o troppo indeterminata, o troppo forte. Perchè, se, per quelle parole, non s’aveva a intendere l’utilità di tutti gli uomini presenti e futuri, non si sapeva di quali uomini s’avesse a intendere; se di tutti, s’aveva a intender l’impossibile. Non saprei almeno vedere altra ragione dell’aver sostituito, come fecero dopo qualche tempo, all’utilità generale, quella del maggior numero d’uomini possibile. A ogni modo, con questa trasformazione il sistema ha perduta in gran parte la sua apparenza di moralità; è l’impossibilità dell’applicazione (s’intende sempre logica) gli è rimasta, nè più nè meno.
E in quanto al primo che il riguardo all’utilità altrui, a un’utilità diversa da quella dell’operante, sia ciò cha dà al sistema un’apparenza di moralità, oltre che è una cosa evidente per sè, si può dedurre dalla confessione medesima dei suoi seguaci. Infatti, a chi gli nega una tal qualità, perchè non è fondato che sull’interesse, rispondono gli ultimi, come rispondevano i primi: Avreste ragione se il sistema non contemplasse che l’interesse di chi delibera sull’azione da farsi o no; ma attribuirgli questo solo intento, è un calunniarlo, mentre pone per condizione essenziale anche l’interesse degli altri. — Ora, chi sono quest’altri? Qual’è la qualità che ha potuto determinare gli autori e i seguaci del sistema a farceli entrare? È evidente che, in quella tesi, è fatta astrazione da ogni qualità distintiva tra uomo e uomo, e non c’è contemplato altro che la qualità, o piuttosto l’essere d’uomo. E la formula «utilità generale,» che nella sua indeterminatezza non comprende espressamente tutti gli uomini, ma non n’esclude espressamente nessuno, poteva far credere in confuso che quella condizione del riguardo dovuto a ogn’uomo come uomo, fosse mantenuta nel sistema. In vece, il dire che ciò che costituisce la moralità d’un’azione, è il riguardo all’utilità del maggior numero d’uomini possibile, è dire che questo riguardo è dovuto ad essi, non in quanto son uomini, ma in quanto sono i più. È dire, per conseguenza, che ci sono degli uomini ai quali si può non aver riguardo di sorte veruna, e operar nondimeno moralmente, purchè siano il minor numero.
So bene che non fu questa l’intenzione di quelli che modificarono la formula del sistema. Fu solamente di levarne una condizione manifestamente ineseguibile, quando ci si voglia trovare un senso chiaro. Videro, o piuttosto badarono (giacchè è una di quelle cose, che non si può non vederle: si può bensì dimenticarle, principalmente nel fabbricare un sistema), badarono, dico, che l’utilità temporali, le sole che il sistema contempli, sono di tal natura, che in moltissimi casi, non possono gli uni goderne, senza che gli altri ne rimangano privi; e che, per conseguenza, l’aver riguardo all’utilità di tutti gli uomini sarebbe una cosa impossibile. Credettero quindi di levar quella contradizione (che non era, del resto, la sola, nè la principale), col sostituire all’utilità generale quella de’ più. E chi si trova tra i meno? Suo danno. Potrà strillare, se gli porta sollievo; ma, qualunque sia il danno che riceve, non potrà allegare alcun titolo per il quale, col farglielo soffrire, sia offesa la moralità. Anzi, se l’errore potesse esser consentaneo a sè stesso fino all’ultimo, è a quel paziente che, secondo il sistema, si potrebbe dire: Siete voi che offendete la moralità col bestemmiare un’azione, nella quale, con l’utilità del maggior numero unita a quella dell’operante, è realizzata la moralità medesima. Tali sono le conseguenze necessarie e immediate di quella formula; e le migliori intenzioni del mondo non faranno mai che si possa stabilire per unica condizione della moralità l’utile del maggior numero, senza escludere ogni e qualunque altro titolo. Che se ne viene ammesso uno qualunque, il principio è andato, e il sistema con esso. O piuttosto, quello di cui il sistema ha fatto il principio supremo della morale, rimane ciò