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546 | osservazioni sulla morale cattolica |
Perciò, nelle false religioni medesime, la tradizione d’una vita futura, nella quale abbia luogo una finale e infallibile retribuzione, s’è conservata forse più di qualunque altra, quantunque diversamente alterata. Era abbracciata e, per dir così, tenuta stretta, in qualunque forma, come un aiuto potente al bisogno razionale di credere alla concordia dell’utilità con la giustizia: aiuto potente, e quasi necessario contro la forza di tanti fatti, che, nel corso ristretto delle vicende mondiali, può parere che la smentiscano apertamente. E un esempio notabile ce ne presenta un filosofo dell’antichità, il quale certamente avrebbe potuto, al pari di chiunque altro, o più di qualunque altro, far di meno d’un tale aiuto, se ce ne fosse stato il mezzo: voglio dire il Socrate di Platone, nel Gorgia. Dopo avere, con quella sua soda e profonda argutezza, con quel mirabile giro d’argomenti verso delle conclusioni tanto irrepugnabìli quanto imprevedute, sostenuto successivamente contro tre avversari, che dall’ingiustizia non si può mai, in questo mondo, ricavare una vera utilità; e dopo averli ridotti, l’uno dopo d’altro, a non saper più cosa si dire, rimane sopra di sè, come non soddisfatto lui medesimo della sua vittoria, e aggiunge che «il discendere nelle tenebre con l’anima carica di iniquità, è l’estremo de’ mali.» E domandato all’ultimo interlocutore, se ne vuol saper la ragione, e rispostogli di sì, prosegue: «Senti dunque, come si suol dire, una bellissima storia, la quale ho paura che a te parrà una favola; ma io la ho per una storia vera; e come tale te la racconto. E passa a raccontare quella per noi poverissima favola in effetto, ma che a uno privo del lume della rivelazione poteva (direi quasi, con ragione, se ci fosse vera ragione fuori della verità) parer meglio che nulla; cioè quella di Minosse, Radamanto e Eaco. E lui medesimo esprime questo sentimento, soggiungendo: Già, a te non pare altro che una novella da donnicciole, e non ne fai caso veruno: e non me ne maraviglierei se, a forza di cercare, si potesse trovar qualcosa di meglio e di più vero.
Ho detto dianzi, che, levata dal conto la vita futuro, non c’è il verso di raccoglierlo. E infatti, implica contradizione il voler far resultare la felicità, cioè uno stato identico e permanente dell’animo, dal bilancio di momenti diversi e successivi dell’animo. Fingiamo anche, per fare una strana ipotesi, che un uomo potesse riconoscere e ragguagliare i momenti piacevoli e i momenti dolorosi d’una vita intera, e trovasse i primi superiori ai secondi, e di numero e d’intensità. Avrebbe da questo ragguaglio una quantità riunita, un residuo netto, di momenti piacevoli: ma questa riunione veduta dalla mente, alla quale i diversi e separati momenti possono esser presenti insieme come oggetti ideali, e quindi immuni dalle leggi del tempo; dalla mente, che in essi contempla l’unità dell’essenza, in quanto sono piacevoli, e li riferisce all’unità del soggetto in cui sono avvenuti in un modo moltiplice; questa riunione, dico, non sarebbe punto esistita nella realtà di quella vita, composta in effetto di momenti successivi, e in parte eterogenei. Dove dunque potrebb’essere collocata la felicità d’una vita temporale, per quanto si volesse restringere, impiccolire, alterare in somma, il senso della parola «felicità?» Non nell’aggregato de’ momenti piacevoli, che, in quanto aggregato, non è una realtà, ma relazioni vedute dalla mente; non in alcuno de’ momenti reali, ognuno de’ quali non sarebbe che una parte della felicità da trovarsi. La felicità non può esser realizzata fuorchè in un presente il quale comprenda l’avvenire, in un momento senza fine, val a dire l’eternità. Senonchè la religione può darci una specie di felicità anche in questa vita mortale, per mezzo d’una speranza piena d’immortalità1. Speranza
- ↑ Et si coram hominibus tormenta passi sunt, spes illorum immortalitate plena est... III, 4.