Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
appendice al capitolo terzo | 543 |
dicare la ragione di criterio anteriore e supremo alla giustizia, lasciata fuori perversamente da Temistocle. Ma, questa cosa bona, la fece male. Uno che avesse avute nozioni abbastanza chiare e del giusto e dell’utile, e, per conseguenza, della loro relazione necessaria, non avrebbe mai fatta quella strana concessione, che un progetto di quella sorte si potesse chiamare utilissimo. O avrebbe detto: La cosa che Temistocle vi dà per utilissima sarebbe ingiustissima; o fidandosi nella forza di questa seconda parola, nella repugnanza che gli uomini provano, per vergogna, anche quando non è per coscienza, a accettar la cosa quand’è chiamata col suo nome, si sarebbe contentato di cambiar la questione (come si deve fare con le questioni piantate in falso), e di dire semplicemente: Ciò che Temistocle propone sarebbe una grand’ingiustizia, o meglio, un’abbominevole scelleratezza.
Ma altro è il dire che, tra la giustizia e l’utilità, non ci possa essere una vera e definitiva opposizione; altro è il dire che siano una cosa sola, cioè che la giustizia non sia altro che utilità. La prima di queste proposizioni esprime una di quelle verità che, più o meno distintamente e fermamente riconosciute, fanno parte del senso comune; la seconda, è diremo anche qui, un’alterazione, una trasformazione di questa verità che il sistema ha presa dal senso comune: perchè, col mezzo proposto da esso, non si sarebbe trovata in eterno.
Infatti, se si domanda al sistema, come mai s’arrivi a conoscere che l’utilità è sempre d’accordo con la giustizia, o, per dirla con altri suoi termini, che l’azione utile al pubblico torna sempre utile al suo autore, e viceversa; se si domanda, dico, come s’arrivi a conoscere una tal cosa, con tanta certezza, da farne il fondamento e la regola della morale; il sistema risponde, come s’è visto, che ce l’insegna l’esperienza. Ma s’è anche visto che, dall’esperienza, per quanto sia vasta e oculata, non si può cavar nessuna conseguenza certa riguardo all’avvenire, e quindi nessuna regola certa per la scelta dell’azioni. E dopo di ciò, non è certamente necessario l’esaminare quale e quanta sia l’esperienza, sulla quale il sistema pretende fondare quello che chiama il suo principio. Ma, per vedere con qual leggerezza proceda in tutto, e per sua natural condizione, non sarà inutile l’osservare di quanto poco si contenti, anche dove sarebbe affatto insufficiente il molto, anzi tutto l’immaginabile di quel genere. Cos’è, dunque, l’esperienza posseduta, sia direttamente, sia per trasmissione, da quelli che credono di poterne ricavare una tal conclusione? e suppongo che siano gli uomini che ne possiedano il più. È la cognizione d’un piccolissimo numero d’azioni umane, relativamente a quelle che hanno avuto luogo nel mondo, e d’un numero de’ loro effetti incomparabilmente minore; giacchè chi non sa quanto numerosi, mediati, sparsi, lontani, eterogenei, possano esser gli effetti d’un’azione umana? effetti, de’ quali una parte, Dio sa quanta e quale, non è ancora realizzata; giacchè
della patria sua, come se queste esigessero che frequentemente usar si dovesse ingiustizia. Conciossiachè raccontasi da quello scrittore, che, consultandosi intorno al trasportare i danari delle pubbliche contribuzioni da Delo ad Atene, ed essendo que’ di Samo che ciò insinuavano, egli disse che la cosa non era veramente giusta, ma utile.»
Ecco un ma che fa un ufizio ben diverso da quello dell’altra volta. E è veramente singolare che Plutarco, il quale riferisce nella Vita medesima, e il consiglio dato a proposito del progetto di Temistocle, e quest’altri due, non abbia avuto nulla a dire di una contradizione tanto enorme. E più singolare ancora, che da Plutarco in poi, si sia continuato a citare e a celebrare quel primo consiglio, come una prova della severa e segnalata moralità d’Aristide, e a chiamar anche costui, all’occorrenza, il giusto per antonomasia, come se la storia, vera o falsa, non riferisse di lui altro che quello.