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appendice al capitolo terzo 541

dall’argomento, risponderemmo che la contradizione che abbiamo notata, è bensì, riguardo al Bentham, un fatto accidentale; giacchè non c’era nulla che lo costringesse a dare in una nota il contrario di ciò che voleva stabilire nel testo; ma è un fatto prodotto da una causa permanente e fecondissima, cioè dall’opposizione dell’assunto con ciò che attesta l’intimo senso: un fatto, per conseguenza, che si riprodurrà necessariamente ogni volta che quell’assunto sia messo a fronte dell’intimo senso. E nulla di più facile, diremo anche qui, che il farne la prova.

Supponiamo dunque che un uomo si proponga, nelle circostanze più favorevoli che si possano immaginare, d’impiegare un grosso capitale nel dissodare un suo terreno, nel farci di gran piantagioni, e nel fabbricarci delle case, per stabilirci delle famiglie miserabili e chiedenti lavoro, con gli attrezzi e il bestiame necessario alla coltura; e che questo brav’uomo si rivolga a un seguace del sistema dell’utilità, e gli dica: Credete voi che questo mio disegno sia conforme alla morale? — Non è egli vero che il filosofo si mette a ridere d’un dubbio di questa sorte? Supponiamo ora che l’altro soggiunga: — Vorrei anche sapere se, mettendo a esecuzione questo disegno, procurerò un vantaggio a me e agli altri. — Gli sarà risposto che, con quelle circostanze tanto favorevoli, e quando la cosa sia fatta a dovere, c’è tutto il fondamento di sperare un tal resultato. Ma se (è un apologo che facciamo) insiste e dice: — Vorrei che mi deste una sicurezza uguale a quella che mi avete data dianzi con quel ridere più significativo di qualunque parlare; perchè mi preme, è vero, soprattutto di non fare una cosa che non sia conforme alla morale; ma mi preme anche molto di fare una cosa utile. Ridete, di grazia, anche di questo mio dubbio; e assicuratemi in questa maniera, che è assurdo il supporre la possibilità d’un resultato contrario; — cosa risponde il filosofo? Ha riconosciuta la distinzione tra l’utilità e la moralità; in due volte, è vero, ma l’ha riconosciuta: si sente ora di ritrattarsi? Rispondo arditamente di no. Come una repugnanza morale non gli permise poco fa d’ammettere che la morale non sia capace se non d’un criterio di probabilità, così una repugnanza logica non gli permette ora d’attribuire all’utilità un criterio di certezza. E questo è un riconoscer di novo, che la questione della moralità, e quella dell’utilità sono due, non una sola espressa in diversi termini.

Allunghiamo un pochino l’apologo, e supponiamo che, compita l’impresa, e al momento di raccogliere i primi frutti, venga un terremoto e subissi ogni cosa, salvandosi il padrone a stento, di mezzo alle rovine. Ognuno chiamerà disgraziata un’impresa che, invece dell’utile sperato, ha prodotto uno scapito effettivo: ci sarà alcuno che la chiami immorale? Eppure è il giudizio che ne dovrebbe portare chiunque fosse persuaso davvero che l’utilità è il criterio della morale, che il «merito e il demerito de’ nostri sentimenti e delle nostre azioni non dipendono dalle loro cause, ma da’ loro effetti,» per servirmi delle parole d’un celebre sostenitore di quella dottrina, smentita nobilmente dalla sua vita1

  1. De Tracy, Élémens d’ideologie, Tome V: Seconde partie du Traité de la volonté: De nos sentimens et de nos passions, ou Morale; Chap. I.
    E scambievolmente si dovrebbero, stando a quella massima, giudicare immuni da ogni immoralità altre azioni, delle quali si può ugualmente asserire con tutta sicurezza che i sostenitori della massima porteranno un giudizio opposto. Vediamone anche qui la prova in un esempio. Un uomo ben diverso dal dissodatore di poco fa, si propone d’avvelenare due galantuomini che gli danno noia; a uno dà effettivamente del veleno; all’altro, per uno sbaglio fortunato, amministra una sostanza innocua, o anche salutare. Ecco due effetti passabilmente diversi: trovatemi l’uomo che, per