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appendice al capitolo terzo | 537 |
l’onniscienza, basta l’intelligenza; anzi non ci sarebbe intelligenza senza di questo. E si noti che, nell’altre scienze, il dubbio, oltre all’essere solamente parziale, anzi per questo esser solamente parziale, è anche relativo al momento in cui viene espresso. Finora, si dice in que’ casi, non s’è potuto, su questo e su quel punto, arrivare ad altro che a dell’opinioui più o meno probabili. Delle nove e più attente osservazioni, una qualche accidentale e felice scoperta, una di quelle occhiate penetranti di qualche grand’ingegno, potranno sostituire all’opinioni una cognizione certa, da aggiungere a quelle che già la scienza possiede. — La sola scienza della morale avrebbe per sua condizione universale e perpetua la probabilità! val a dire, sarebbe condannata al dubbio su tutti i punti e per sempre! Ma se fosse tale, il chiamarla scienza non sarebbe altro che una contradizione. Il dubbio parziale e accidentale limita la scienza: il dubbio universale e necessario la nega.
Ma, come accennavo, non credono davvero loro medesimi che nella morale non ci sia altro che probabilità; e quando mettono in campo una così strana sentenza, non lo fanno già per esserci stati condotti da una serie di osservazioni e di ragionamenti; ma perchè è l’unica replica che possano fare a chi oppone al loro sistema la mancanza d’un criterio assoluto. Allegando da principio l’esperienza, non avevano pensato a esaminare la natura e i limiti della sua autorità. Tenendola per una buona guida, com’è tenuta universalmente, e com’è infatti dentro que’ limiti, supponevano gratuitamente e in confuso, che dovesse bastare al loro intento. Quando poi si sentono opporre che l’esperienza non può somministrare altro che un criterio di probabilità, dicono che la probabilità sola deve bastare. È l’usanza dell’errore, darsi a intendere d’avere scelto il posto dov’è stato cacciato, e chiamare inutile o impossibile ciò che non può dare. Ma non ne sono veramente persuasi, nemmeno dopo averlo detto. E se paresse una temerità il voler così entrare nella mente degli altri, non c’è nulla di più facile che il far dichiarare la cosa a loro medesimi, cun risolutezza, anzi con emozione. Domando infatti a qualsiasi di loro, se, per esempio, uccidere l’ospite addormentato, per impossessarsi del suo danaro, sia o non sia un’azione che cada sotto un giudizio della moralità. E sottintesa la risposta, che non può esser dubbia, ragiono così: O il criterio della morale non può farci arrivare che a un giudizio di mera probabilità; e si dovrà dire che uccidere l’ospite addormentato, per impossessarsi del suo danaro, è un’azione probabilmente, nulla più che probabilmente, contraria alla morale; e che, per conseguenza, c’è anche una probabilità, piccola quanto si vuole, ma una probabilità, che possa essere un’azione morale; o..... Ma non mi lascia finire: non può sentire senza indegnazione enunciar come problematico un tale giudizio. Eppure, per avere il diritto d’enunciarlo assolutamente, il diritto di dire: no, non c’è, nè ci può essere probabilità, nè grande, nè mezzana, nè minima, che una tale azione sia conforme alla morale, non c’è altro mezzo che dire: l’utilità futura, essendo materia: di mera probabilità, non può essere il criterio della morale. O rinunziare al sistema, o rinunziar all’indegnazione.
Ma, dicono ancora, cos’altro facciamo noi, che osservare i fatti, e fatti essenziali della natura umana, e esporli? Siamo forse noi che abbiamo suggerito agli uomini d’appetire l’utilità, e di procurarsela? Siamo noi che abbiamo inventata l’usanza di prenderla per motivo nella scelta dell’azioni, e di crederla un motivo legittimo e ragionevole? È una «condizione della natura umana il pensar, prima di tutto, al proprio interesse1.»
- ↑ Bentham, Deontology, etc. Deontologia, ovvero Scienza della moralità, etc. Part. I, Cap. I.