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capitolo decimonono | 533 |
Come s’è accennato fino dal principio, non è nostra intenzione di confutare un tal giudizio, nè di far l’apologia dell’Italia, e molto meno un’apologia comparativa: assunto d’un genere che richiede o piuttosto richiederebbe due condizioni, una delle quali difficilissima, per non dire impossibile, cioè la cognizione de’ fatti necessaria al confronto; l’altra, difficile anch’essa non poco, se si deve argomentare da quello che si vede, cioè l’imparzialità necessaria al giudizio. Si potrebbe, con molto maggior facilità, e senza metterci nulla del nostro, opporre affermazioni a affermazioni, sentenze a sentenze, raccogliendo anche una piccola parte di quelle che da scrittori di ciascheduna parte d’Europa sono state pronunziate contro ciaschedun’altra. Qual è la qualità bassa, ridicola, scellerata, che non sia stata attribuita o all’una o all’altra, o anche a ognuna? Qual è il termine di disprezzo, la formola d’esecrazione, che non sia stata adoprata a un tal uso? Qual è il popolo d’Europa, che non sia stato qualche volta, e più d’una volta, chiamato il peggio d’Europa? Ma il cielo ci guardi dal rimestare una materia simile. Sono giudizi suggeriti dalle passioni; e tra queste, anche quando non è l’unica, ha sempre una bona parte l’orgoglio, che ci fa trovare la nostra esaltazione nell’abbassamento altrui: tanto sente, suo malgrado, il bisogno di cercar qualche aiuto al di fuori. Lasciamo questi giudizi, così vasti e così turbolenti per noi, e ne’ quali siamo sempre giudici non abbastanza informati, e quasi sempre parte appassionata, lasciamoli a Quello che, conoscendo ogni cosa, e non avendo bisogno d’innalzarsi per mezza de’ paragoni, nè d’accattar lustro da nessuna compagnia, giudica i popoli nell’equità1.
Del resto, il giudizio di cui si tratta qui specialmente, è espresso in termini tali, che l’accettarlo qual è sarebbe, di certo, oltrepassar l’intenzione dell’autore. Perchè, di certo, dicendo che, «in Italia ognuno ha imparato, non a ubbidire alla sua coscienza, ma a giocar d’astuzia con essa; che ognuno mette al largo le sue passioni col comodo dell’indulgenze, con delle restrizioni mentali, con de’ progetti di penitenza, e con la speranza d’una prossima assoluzione,» non ha voluto dire ciò che dicono queste parole. Non ci sarebbe tra di noi uno solo che ubbidisca sinceramente alla sua coscienza! Nessuno di noi potrebbe sperare d’avere un amico virtuoso, d’esserlo lui medesimo! E le gioconde emozioni della stima e della fiducia, e la gioia che è dato all’uomo di provare, allorchè, stringendo la mano dell’uomo, sente con sicurezza che un core risponde al suo, non sarebbe concessa a nessuno di noi! Nel passo medesimo che precede immediatamente quello che stiamo esaminando, si troverebbero, se ce ne fosse bisogno, parole che non permettono d’intendere, senza contradizione, quest’ultime nel loro significato proprio e naturale. Il dire che tra i cattolici d’Italia, «anche l’uomo che è stato veramente e puramente virtuoso, non saprebbe rendersi conto delle regole che s’è imposte,» è dire indirettamente, ma espressamente, che, anche in Italia, e tra i fedeli scrupolosi d’Italia, ci può essere, se Dio vuole, qualche uomo veramente e puramente virtuoso, e del quale, per conseguenza, sarebbe troppo strano che s’avesse ragione di diffidare in un grado speciale.
Ma ciò che importa non è di vedere qual sia, secondo una o un’altra opinione, lo stato morale dell’Italia, in paragone di quello degli altri popoli d’Europa. Ciò che importa o, possiam dire, ciò che importava, era di vedere se, di quel tanto o quanto male morale che c’è sicuramente in Italia, cioè anche in Italia, sia stata cagione un’influenza spe-
- ↑ Quoniam judicas populos in æquitate. Psalm. LXVI, 5