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capitolo decimottavo 531

o a quel sacerdote, per una venerazione e per una fiducia speciale. In quanto alla prima, essa è essenziale al cristianesimo: il sottomettercisi non è servitù, ma ragione e dignità. Non c’è atto di questa, che non sia un atto di servizio, in cui il sacerdote non comparisca come ministro d’una autorità divina, alla quale è sottomesso anche lui, come tutti i fedeli; non ce n’è alcuno che offenda la nobiltà del cristiano.

Sì, noi, cioè tutti i cattolici, e laici e sacerdoti, principiando dal papa, c’inginocchiamo davanti a un sacerdote, gli raccontiamo le nostre colpe, ascoltiamo le sue correzioni e i suoi consigli, accettiamo le sue punizioni. Ma quando un sacerdote, fremendo in spirito della sua indegnità e dell’altezza delle sue funzioni, ha stese sul nostro capo le sue mani consacrate; quando, umiliato di trovarsi il dispensatore del Sangue dell’alleanza, stupito ogni volta di proferire le parole che danno la vita, peccatore ha assolto un peccatore, noi alzandoci da’ suoi piedi, sentiamo di non aver commessa una viltà. C’eravamo forse stati a mendicare speranze terrene? Gli abbiamo forse parlato di lui? Abbiamo forse tollerata una positura umiliante per rialzarcene più superbi, per ottenere di primeggiare sui nostri fratelli? Non s’è trattato tra di noi, che d’una miseria comune a tutti, e d’una misericordia di cui abbiamo tutti bisogno. Siamo stati a’ piedi d’un uomo che rappresentava Gesù Cristo, per deporre, se fosse possibile, tutto ciò che inclina l’animo alla bassezza, il giogo delle passioni, l’amore delle cose passeggiere del mondo, il timore de’ suoi giudizi; ci siamo stati per acquistare la qualità di liberi, e di figliuoli di Dio.

In quanto all’autorità del secondo genere, essa è fondata su un principio ragionevolissimo; ma può avere e ha purtroppo i suoi abusi. Per non giudicare precipitosamente in ciò, un cristiano dove, a mio credere, non perder mai di vista due cose: una, che l’uomo può abusare delle cose più sante; l’altra, che il mondo suol dare il nome d’abuso anche alle cose più sante. Quando siamo tacciati di superstizione, di fanatismo, di dominazione, di servilità, riconosciamo pure, che la taccia può pur troppo esser fondata; ma esaminiamo poi se lo sia, giacchè queste parole sono spesso impiegate a qualificare l’azioni e i sentimenti che prescrive il Vangelo.

«Ricorrere, per consiglio, alla sua guida spirituale, ne’ casi dubbi,» non è farsi schiavo dell’uomo; è fare un nobile esercizio della propria libertà. E è forse superfluo l’osservare che una tal massima e una tal pratica non sono punto particolari all’Italia, ma comuni ai cattolici di qualunque paese.

L’uomo che deve esser giudice in causa propria, e che desidera d’operare secondo la legge divina, non può a meno di non accorgersi che l’interesse e la prevenzione inceppano la libertà del suo giudizio; e è savio se ricorre a un consigliere, il quale, e per istituto e per ministero, deve aver meditata quella legge, e esser più capace d’applicarla imparzialmente; a un uomo che dev’esser nutrito di preghiera, e che, avvezzo alla contemplazione delle cose del cielo, e al sacrifizio di sè stesso, deve sapere, in particolar maniera, stimar le cose col peso del santuario.

Ma del consiglio che gli vien dato, è sempre giudice lui: la decisione dipende dal suo convincimento; tanto è vero, che gli sarà chiesta ragione, non solo di questa, ma della scelta medesima del consigliere. E non s’è mai lasciato di predicare nella Chiesa, che «Se un cieco ne guida un altro, tutt’e due cadono nella fossa1

  1. Cæcus si cæco ducatum præstet, ambo in foveam cadunt. Matth. XV, 14.