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528 osservazioni sulla morale cattolica

e si consuma a dimostrar che le cose non dovrebbero essere come Dio l’ha volute: se si chiude in sè, il suo silenzio è amaro, sprezzante, imposto dal sentimento della propria impotenza, e per fino dal timore della commiserazione altrui. Quelle vantate consolazioni dell’uomo che, nell’avversità, afferma di trovare un compenso in sè, quando questo compenso non sia rassegnazione e speranza, non sono, per lo più, se non un artifizio dell’orgoglio stesso, che rifugge dal lasciar vedere uno stato d’abbattimento, che potrebb’essere un grato spettacolo all’orgoglio altrui. Dio sa quali siano queste consolazioni; e basta leggere le Confessioni dell’infelice Rosseau per averne un’idea, per vedere quale sia lo stato d’un core che, ammalato d’orgoglio, cerca nell’orgoglio il suo rimedio. Nella solitudine, dove s’era promessa la pace, ritorna col pensiero sull’umiliazioni sofferte nella compagnia degli uomini, ne rammemora le più piccole circostanze. Colui che aveva parlato e scritto tanto sulla corruttela dell’uomo sociale, non aveva un animo preparato all’ingiustizia: quando n’è colpito, non se ne può dar pace. Si paragona con quelli che l’offesero, che lo trascurarono; si trova tanto dappiù di essi, e si rode pensando che questi appunto l’abbiano offeso o trascurato. Le parole, gli sguardi, il silenzio, tutto ripensa nell’amaritudine dell’anima sua: i patimenti del suo orgoglio si possono misurare dall’avversione che prova per coloro che l’hanno irritato: come li giudica, come li dipinge! Può esser certo d’aver comunicato all’animo di migliaia di lettori l’odio e il disprezzo che lo tormentano; e quando pare che sia vendicato, esclama: cela me passoit, et me passe encore1. Eppure, se ci fu mai, secondo il mondo, un giusto orgoglio; se un ingegno lodato anche dagli avversari; se una parola che si fa sentire pertutto dove c’è qualche coltura, una parola che agita, sorprende, comanda; se una fama che, levando alla folla degli scrittori anche il pensiero della rivalità, soffoga in essi l’invidia, e la fa nascere in que’ provetti, che credevano di non aver più altro a fare che incoraggire il merito nascente, senza timore di competenze; se l’esser, non solo mostrato a dito, ma spiato, appostato da una curiosità ammiratrice, ricercato, nella più umile fortuna, da quelli che sono ricercati per la loro fortuna, sono titoli d’un giusto orgoglio, chi n’ebbe di maggiori? E, tra tanti motivi, non dirò di consolazione, ma di trionfo, quali sono poi finalmente i suoi dolori? È un amico del mondo, che vuol fargli l’uomo addosso, e prescrivergli ciò che deva fare; è un altro che, protetto da lui altre volte, vuol parere il suo protettore, e gli leva il posto alla tavola d’un’altra amica dello stesso genere. Ah! certo non bisogna usar parsimonia nel dispensare la compassione, nè pesare sulla nostra bilancia i dolori degli altri: l’uomo che soffre, sa lui quello che soffre; e se è la debolezza dell’animo suo, che ingrandisce il male, questa debolezza, comune a tutti, è quella appunto che merita una maggior compassione. Ma, quando si pensa alle ingiustizie sofferte dai grandi del cristianesimo; quando si pensa alle persecuzioni, alle calunnie, ai disprezzi di cui furono colmati i santi, e alla gioia con cui li sopportarono, alla pazienza con cui aspettarono la manifestazione della verità, senza pretenderla in questa vita, alla delizia che provavano a sfogarsi soli con Dio, e che i loro sfoghi erano azioni di grazie, e tutto ciò perchè erano umili; allora si riconosce dove l’uomo possa trovar davvero un sostegno contro la sua propria debolezza, e una consolazione nell’avversità.

Ah! se nella vita che ci resta a percorrere, ci sono preparati de’ passi difficili e dolorosi, se per noi s’avvicina il momento della prova, pre-

  1. Confessions, II Partie, Liv. IX.