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capitolo decimosettimo | 525 |
di riconoscere, conservando però tenacemente la parola. E questo accade per più cagioni; ma forse la più attiva e la più frequente, è l’affetto a opinioni o à giudizi arbitrari coi quali quell’idea non potrebbe accomodarsi; anzi li dovrebbe correggere, che è ciò che non vogliamo. Ora, ne’ sentimenti, nei pensieri, nell’azioni, nel contegno, a cui s’applica la parola modestia, l’idea predominante mi par che sia: confessione d’una maggiore o minor distanza dalla perfezione.
Posto ciò, l’uomo a cui si dà lode di modesto, perchè dimostra un sentimento della propria imperfezione, o è persuaso, o non lo è. Se non lo è, la sua è tanto lontana dall’esser virtù, che è anzi vizio; è finzione, ipocrisia. Che se è persuaso, o lo è con ragione, o no. In questo secondo caso, sarebbe ignoranza, inganno: ora, non è virtù quel sentimento che un esame più giudizioso, una maggior cognizione della verità, un aumento di lumi, ci farà abbandonare. Altrimenti bisognerebbe dire che ci siano delle virtù opposte alla verità; in altri termini, che la virtù è un concetto falso. Se dunque, quando si loda la modestia d’uno, non si vuol dire che quest’uomo sia o un impostore, o uno sciocco, si dovrà dire che la modestia suppone la cognizione di sè stesso, e che nella cognizione di sè stesso l’uomo deve sempre trovar la ragione d’esser modesto. Ho detto sempre, perchè altrimenti ci sarebbero de’ casi in cui l’uomo potrebbe ragionevolmente avere il sentimento opposto a questa virtù. Anzi, quanto più uno diventasse virtuoso, dovrebbe esser meno modesto; giacchè è certo che si sarebbe avvicinato alla perfezione; e così il miglioramento dell’animo condurrebbe logicamente alla perdita d’una virtù; il che è assurdo. Ora, questa ragione perpetua, e senza eccezione, d’esser modesti, si trova nella doppia idea che la rivelazione ci ha data di noi stessi e sulla quale è fondato il precetto dell’umiltà, la quale non è altro che una cognizione di sè stesso. E questa idea è, che l’uomo è corrotto e inclinato al male, e che tutto ciò che ha di bene in sè, è un dono di Dio: dimanierachè ognuno può e deve, in ogni caso, dire a sè stesso: «Che hai tu, che non abbi ricevuto? e se l’hai ricevuto, perchè te ne glorii, come se non l’avessi ricevuto?1»
Per questa sola ultima ragione, Gesù Cristo, quantunque perfetto, anzi perciò appunto, ha potuto essere sovranamente umile; perchè conoscendo in eccellente grado sè stesso, e non essendo accessibile ad alcuna delle passioni che fanno errare l’uomo che giudica sè stesso, ha veduto in eccellente grado, che l’infinite perfezioni che aveva nella sua natura umana, erano doni.
E per riguardo a tutti gli uomini, si darà, un’idea chiara e ragionata della modestia, chiamandola l’espressione dell’umiltà, il contegno d’un uomo il quale riconosce d’esser soggetto all’errore e al traviamento, e riconosce ugualmente, che tutti i suoi pregi sono doni che può perdere per la sua debolezza e per la sua corruttela. Se non ci supponiamo quest’idea, la modestia è o scempiaggine o impostura: se ce la supponiamo, è ragione e virtù: con quest’idea si spiega l’uniformità del sentimento degli uomini in favore di essa; e questo sentimento diventa un raziocinio.
Noi lodiamo l’uomo modesto, non solo perchè, abbassandosi e tenendosi in un canto, lascia a noi un po’ più di posto per elevarci e per comparire; non lo lodiamo solo come un concorrente che si ritira. Certo; l’interesse delle nostre passioni ha una parte, che noi stessi non sappiamo sempre
- ↑ Quis enim te discernit? Quid autem habes, quod non accepisti? Si autem accepisti, quid gloriaris quasi non acceperis? I Corinth. IV, 7.