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capitolo decimosesto 521

mostra illusoria e, e per dir così, una millanteria di penitenza, che si vede uscire tutt’a a un tratto da una vita tutta di delizie e di passioni, presenta un contrasto strano tra l’intenzione della legge e lo spirito dell’ubbidienza, tra la difficoltà e il merito. E il mondo ne profitta per ridere anche della legge.

Ma, per levarne ogni occasione a chiunque voglia riflettere (giacchè ci sono degli uomini i quali non lasciano più di ridere d’una cosa che hanno una volta concepita come ridicola), basta distaccar l’astinenze da quel complesso d’idee, nel quale fanno contradizione, e rimetterle in quello che loro è proprio, e nel quale furono collocate dalla legislazione religiosa. Basta osservarle insieme coi fini che la Chiesa ha avuti di mira nell’ordinarle; e insieme non dimenticàre i casi ne’ quali producono i loro effetti; allora, non solo svanirà il ridicolo, ma comparirà la bellezza, la sapienza e l’importanza di queste leggi.

La sobrietà, come ha detto benissimo l’illustre autore, conserva le facoltà degl’individui. Ma la religione non si contenta di quest’effetto, nè di questa virtù, conosciuta anche da’ gentili; e avendo fatti conoscere i mali profondi dell’uomo, ha dovuto proporzionare ad essi i rimedi. Nei piaceri della gola che si possono conciliare con la sobrietà, vede una tendenza sensuale che svia dalla vera destinazione; e dove non è ancor principiato il male, segna il pericolo. Prescrive l’astinenza come una precauzione indispensabile a chi deve sostenere il combattimento contro la legge delle membra; la prescrive come espiazione de’ falli in cui l’umana debolezza fa cadere anche i migliori; la prescrive ancora per ragione di carità e giustizia; perchè le privazioni de’ fedeli devono servire a soddisfare ai bisogni altrui, e compartire così tra gli uomini le cose necessarie al vitto, e fare scomparire dalle società cristiane que’ due tristi opposti, di profusione a cui manca la fame, e di fame a cui manca il pane.

Queste prescrizioni, essendo così necessarie all’uomo in tutti i tempi, hanno dovuto principiare con la promulgazione della religione; e così è infatti. Nel solo popolo che avesse una civilizzazione fondata sopra idee di giustizia universale, di dignità umana e di progresso nel bene, cioè sopra un culto legittimo, si trovano esse fino da’ primi tempi del suo passaggio solenne dallo stato di schiavitù, dov’era ritenuto dalla prepotenza e dalla mala fede, allo stato di nazione; e la tradizione del digiuno discende da Mosè fino a’ nostri giorni, come un rito di penitenza e un mezzo d’innalzar la mente al concetto delle cose di Dio, e di mantenersi fedeli alla sua legge.

Al tempo di Samuele, gl’Israeliti prevaricano; ma quando ritornano al Signore pentiti, quande cessano d’adorare le ricchezze della terra, e levano di mezzo a loro gli dei visibili degli stranieri, offrono olocausti al Signore, e digiunano1.

L’idolatria era il culto della cupidigia, la festa de’ godimenti terreni per rompere l’abitudine della servitù de’ sensi, per ritornare a Dio, bisognava principiare dalle privazioni volontarie. E quando i figli d’Israele ritornano dalla terra de’ padroni stranieri, quando sono per rivedere Gerusalemme, il magnanimo Esdra loro condottiere, li prepara al viaggio

  1. Abstulerunt ergo filii Israel Baalim, et Astaroth, et servierunt Domino soli.... et jejunaverunt in die illa. I Reg. VII, 4, 6.
    Astaroth, greges, sive divitiæ; Baalim, idola, dominantes. Nominum interpretatio in Bibl. jussu cler. gallic. edita. Paris, Vitré, 1652.