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capitolo decimoquarto 511

nimo senza produrre alcun effetto importante, pratiche claustrali. Della seconda specie sono le prescrizioni dure, ma giuste e inappellabili, che in certi casi richiedono de’ sacrifizi ai quali il senso repugna, de’ sacrifizi che chiamiamo eroici, per dispensarci dall’esaminare se non siano doverosi. E a queste s’oppone, che bisogna prendere gli uomini come sono, e non pretendere cose perfette da una natura debole. Ma la religione, appunto perchè conosce la debolezza di questa natura che vuol raddrizzare, la munisce di soccorsi e di forza; appunto perchè il combattimento è terribile, vuole che l’uomo ci si prepari in tutta la vita; appunto perchè abbiamo un animo che una forte impressione basta a turbare, che l’importanza e l’urgenza d’una scelta confondono di più, mentre gli rendono più necessaria la calma; appunto perchè l’abitudine esercita una specie di dominio sopra di noi, la religione impiega tutti i nostri momenti ad abituarci alla signoria di noi stessi, al predominio della ragione sulle passioni, alla serenità della mente. La religione è stata, fino ne’ suoi primi tempi, e da’ suoi primi apostoli, paragonata a una milizia. Applicando questa similitudine, si può dire che chi non vede o non sa apprezzare l’unità delle sue massime e delle sue discipline, fa come chi trovasse strano che i soldati s’addestrino ai movimenti della guerra, e ne sopportino le fatiche e le privazioni, quando non ci sono nemici.

Le filosofie puramente umane, richiedendo molto meno, sono molto più esigenti: non fanno nulla per educar l’animo al bene difficile, prescrivono solo azioni staccate, vogliono spesso il fine senza i mezzi: trattano gli uomini come reclute, alle quali non si parlasse che di pace e di divertimenti, e che si conducessero alla sprovvista contro de’ nemici terribili. Ma il combattirnento non si schiva col non pensarci; vengono i momenti del contrasto tra il dovere e l’utile, tra l’abitudine e la regola; e l’uomo si trova a fronte una potente inclinazione da vincere, non avendo mai imparato a vincere le più fiacche. Sarà forse stato avvezzo a reprimerle per motivi d’interesse, per una prudenza mondana; ma ora l’interesse è appunto quello che lo mette alle prese con la coscienza. Gli è stata dipinta la strada della giustizia come piana e sparsa di fiori; gli è stato detto che non si trattava se non di scegliere tra i piaceri, e ora si trova tra il piacere e la giustizia, tra un gran dolore e una grand’iniquità. La religione, che ha reso il suo allievo forte contro i sensi, e guardingo contro le sorprese, la religione, che gli ha insegnato a chieder sempra de’ soccorsi che non sono mai negati, gl’impone ora un grand’obbligo, ma l’ha messo in caso d’adempirlo; e avergli chiesto un gran sacrifizio, sarà un dono di più che gli avrà fatto. La religione, chiedendo all’uomo cose più perfette, chiede cose più facili, vuole che arrivi a una grand’altezza, ma gli ha fatta la scala, ma l’ha condotto per mano: le filosofie umane, contentandosi che tocchi un punto molto meno elevato, pretendono spesso di più; pretendono un salto che non è della forza dell’uomo.

Credo di dover dichiarare che sono lontano dal pensare che l’illustre autore non veda gl’inconvenienti della maldicenza, e voglia quasi farne l’apologia; ma ho dovuto mostrare che è eminentemente evangelico e morale l’insegnamento della Chiesa che dir male del prossimo è peccato.

Ma il giusto giudizio che deve discernere la virtù dal vizio, vuol forse impedirlo? No, certamente: vuol impedire le superbe, leggiere, ingiuste, inutili accuse, il giudizio dell’ intenzioni, nelle quali Dio solo vede anche ciò che è sentito confusamente nel core stesso dove si formano; ma il testimonio dell’azioni, vuol regolarlo, non levarlo di mezzo; lo comanda anzi quasi in tutti i casi in cui non lo condanna, cioè quando non ci porti a darlo la voglia di deprimere o di disonorare, ma dovere d’ufizio o di carità; quando si tratti di preservare il prossimo dall’insidie de’ maligni;