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510 | osservazioni sulla morale cattolica |
d’applauso e di concordia, principia a gustare l’amarezza dell’odio; allora l’instabile fondamento sul quale era stabilita la sua virtù, cede facilmente: felice lui, se questo in vece gli fa pensare che la lode degli uomini non è nè una mercede sicura, nè la mercede. Ah! se la diffidenza regna tra gli uomini, la facilità del dir male ne è una delle principali cagioni. Colui che ha visto un uomo stringer la mano a un altro, col sorriso dell’amicizia sulle labbra, e che lo sente poi farne strazio dietro le spalle, come non sarà portato a sospettare che in ogni espressione di stima e d’affetto, possa esser nascosta un’insidia? La fiducia crescerebbe al contrario, e con essa la benevolenza e la pace, se la detrazione fosse proscritta: ognuno che, abbracciando un nomo, potesse star sicuro di non esser l’oggetto della sua censura e della sua derisione, lo farebbe naturalmente con un più puro e più libero senso di carità.
Si crede da molti, che la repugnanza a supporre il male nasca da eccessiva semplicità o da inesperienza; come se ci volesse una gran perspicaca a supporre che ogn’uomo, in ogni caso, scelga il partito più tristo. E, invece, la disposizione a giudicare con indulgenza, a pesare l’accuse precipitate, e a compatire i falli reali, richiede l’abitudine della riflessione sui motivi complicatissimi che determinano a operare, sulla natura dell’uomo e sulla sua debolezza.
Quello a cui vien riferita la mormorazione fatta contro di lui (e i rapportatori sono la discendenza naturale de’ maledici), ci vede spesso un’ingiustizia che lui solo può conoscere, ma della quale tutti possono, e quindi tutti devono, riconoscere il pericolo. Ha operato in circostanze delle quali lui solo abbraccia il complesso: il censore non se n’è fatto carico, ha giudicato nudamente un fatto con delle regole di cui non può giustamente misurare l’applicazione; forse biasima un uomo, solamente perchè non ha fatto ciò che farebbe lui, forse perchè non ha le sue stesse passioni. E quand’anche il censurato sia costretto a confessare a sè stesso che la maldicenza è affatto esente da calunnia, non ne è portato per lo più al ravvedinnento, ma allo sdegno; non pensa a riformarsi, ma si volge a esaminare la condotta del suo detrattore, a cercare in quella un lato debole e aperto alla recriminazione: l’imparzialità è rara in tutti, ma pia negli offesi. Così si stabilisce una miserabile guerra, una continua faccenda nell’esaminare e propalare i difetti altrui, che accresce la noncuranza de’ propri.
Quando poi gl’interessi ci mettono a fronte l’uno dell’altro, qual maraviglia che l’ire e le percosse siano così pronte, che ci facciamo tanto male a vicenda? L’averne tanto pensato e tanto detto, ci ha preparati a ciò; siamo avvezzi a non perdonarci nel discorso, a godere dell’abbassamento altrui, a straziare quegli stessi coi quali non abbiamo contrasti; trattiamo gli sconosciuti come nemici: come mai ci troveremo tutt’a un tratto disposti alla carità e ai riguardi ne momenti appunto che la cosa è più difficile, e richiede un animo che ci sia esercitato di lunga mano? Perciò la Chiesa, che vuol fratellanza, vuole anche uomini che non pensino il male, che ne gemano quando lo vedono, che parlino degli assenti con quella delicata attenzione che l’amor proprio ci fa ordinariamente usare verso i presenti. Per regolare l’azioni, frena le parole, e, per regolar queste, mette la guardia al core.
Si separano spesso, e si condannano due specie di prescrizioni religiose, che si dovrebbero in vece mettere insieme e ammirare. Della prima specie è la preghiera continua, la custodia de’ sensi, il combattimento perpetuo contro ogni attacco eccessivo alle cose mortali, il riferir tutto a Dio, la vigilanza sul primo manifestarsi d’ogni sentimento disordinato, e altre tali. Di queste si dice che sono miserie, vincoli che restringono l’a-