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capitolo decimoterzo 505

e assassinio, e (negli altri, esempi, che ho creduto inutile di trascrivere), culto dell’immagine, libertinaggio, digiuno ecclesiastico e spergiuro, come se queste cose fossero in certo modo cause e effetti; dal veder supposta nel core dell’uomo vizioso quasi una progressione parallela di fedeltà ai precetti ecclesiastici, e di scelleratezza. No, non c’è alcuna connessione tra queste cose; sono idee e nomi repugnanti; non c’è lato per cui si tocchino, c’è tra di esse la distanza che separa il bene dal male. No, la Chiesa non ha mai proposti i suoi precetti in sostituzione delle leggi della morale: non si potevano ideare precetti che fossero più conducenti alla vera, all’intera, all’eterna morale: credersi dispensato da essa, osservando esteriormente alcuni di que’ precetti, non può essere nella mente del cristiano che una demenza irreligiosa; e una demenza di questo genere dev’essere sempre stata rara.

Perchè, altro è che degli uomini perversi, calpestando que’ gravissimi comandamenti, da’ quali dipende la conservazione del viver sociale, abbiano mantenuta una fedeltà esteriore a quelli che sono dati dalla Chiesa per facilitare l’adempimento d’ogni giustizia; altro è che questa fedeltà stessa gli abbia incoraggiti a calpestare i primi. Hanno osservata la parte più facile della legge; hanno commesse quelle sole colpe che non sapevano rifiutare alle loro inclinazioni corrotte; non hanno aggiunto il disprezzo d’alcuni precetti alla violazione degli altri, perchè questo disprezzo non aveva per loro un’attrattiva bastante da farli diventar rei anche in questo: ecco tutta la storia del loro animo. Che se c’è pure «l’uomo vizioso che si senta dispensato dalla morale, quanto più è regolare nell’osservare i comandamenti della Chiesa,» si trovi nelle massime e ne’ precetti della Chiesa il fondamento di questo suo sistema, s’indichi in essi il punto donde s’è mosso per arrivare a un tale delirio; si dica quali istituzioni potrebbero esser atte a ritenere nell’ordine una mente e un core, quali si suppongono a quest’uomo. L’assassino mangia di magro con divozione! Ah! quanto è lontano questo sentimento, che riunisce il sacrifizio e l’amore, dal core dove è risoluta la morte d’un fratello! Egli mangia di magro! Ma quando la Chiesa gli ha detto: sii temperante, rinunzia in certi giorni a certi cibi, per vincere la bassa inclinazione della gola, per mortificare il tuo corpo, gli ha poi soggiunto: e con questo tu potrai uccidere? O perchè c’è chi vuol esser omicida, la Chiesa non comanderà a tutti d’essere astinenti? Non imporrà più delle penitenze, per timore d’ incoraggire al peccato? Cosa importa che due comandamenti siano diversi, quando non si contradicono? È impossibile figurarsi una morale, una regola di vita, in cui non ci siano dell’obbligazioni di vario genere e di diversa importanza: la morale perfetta sarà quella in cui tutte l’obbligazioni vengano da un principio, siano dirette a un solo fine, e questo sia santissimo: e tale appunto è la morale della Chiesa.

È egli poi da credersi che questo fine la Chiesa non l’ottenga mai? Nel testo che osserviamo non è accennata che una delle possibili relazioni dei comandamenti ecclesiastici con la morale; l’osservanza di questi combinata con la persistenza nel delitto. Un complesso di discipline meditate, promulgate, venerate da una società come la Chiesa, non meriterebbe attenzione, se non per l’ubbidienza di qualche omicida, di qualche prostituta, di qualche spergiuro! I cattolici virtuosi non sono dunque osservatori de’ comandamenti? O se lo sono, una tale osservanza non avrà alcun effetto sulla loro condotta? Nè l’astinenza così efficace a liberar l’animo dalle tendenze sensuali; nè il culto dell’immagini, che, per applicarlo alle cose celesti, si prevale della prepotenza stessa de’ sensi, così forte per sè a sviarnelo; nè l’ubbidienza volontaria e dignitosa che,