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capitolo duodecimo 501

tere attribuito al pentimento, perchè questo potere renderebbe anzi meno necessaria l’assoluzione a un’anima già ritornata a Dio; non dal potere attribuito all’indulgenze, perchè, come già s’è dovuto parlarne, nessuno attribuì mai ad esse quello di salvare dalla dannazione eterna. Quanto alle cerimonie religiose, non ne parlo, non sapendo a quali precisamente si voglia qui alludere.

La Chiesa è tanto lontana dal sospettare che il caso, e non la virtù, possa decidere della sorte eterna dell’anima del moribondo, che non conosce nemmeno questa parola caso (hasard). Non ripete dal caso nè l’essere o no in istato di grazia, nè il morire in un momento piuttosto che in un altro. Se l’uomo virtuoso cade in peccato, non è effetto del caso, ma della sua volontà pervertita; se more in peccato, è un terribile e giusto giudizio.

La Chiesa non suppone che alcun peccato mortale sia compatibile con la conservazione della virtù: quindi se il giusto diventa peccatore, è appunto la virtù, cioè l’avere abbandonata la virtù, che decide della sorte dell’anima sua. La giustizia del giusto non lo libererà, in qualunque giorno pecchi1.

Ma non s’intende il vero spirito della Chiesa, non si dà nemmeno, mi pare, un’idea giusta della natura dell’uomo, se si suppone che decada così facilmente dalla giustizia realmente acquistata; se si vuol credere che la conseguenza naturale della vita più pura sia una morte impenitente e la dannazione eterna. Certo, il giusto può cadere: la Chiesa glielo rammenta, perchè vegli e perchè sia umile, perchè tema e perchè speri, perchè è una verità. Se non potesse cadere, sarebbe questa una vita di prova? Se non potesse esser vinto, dove sarebbe il combattimento? Se non avesse in tutti i momenti bisogno dell’aiuto divino, che? non dovrebbe più pregare. Ma la Chiesa vuol levare al giusto la presunzione, non la fiducia. Come! essa che non parla a’ peccatori, che di conversione e di perdono, di penitenza e di consolazione, che rammemora loro i giorni felici che si passano nella casa del Padre, vorrebbe poi contristare gl’innocenti rappresentando il loro stato come uno stato senza fermezza e senza appoggio? La Chiesa, come già s’è dovuto osservare, non consiglia la speranza, ma la comanda. Dice a tutti d’operar la salute con timore e tremore2: ma dice anche che «Dio è fedele e non permetterà che siano tentati oltre il loro potere3; ma non cessa di ripetere ai giusti, che chi ha principiata in loro l’opera bona, la perfezionerà fino al giorno di Cristo Gesù4

Le decisioni della Chiesa, «che si cada in peccato mortale pronunziando certe parole profane che l’uso ha rese così comuni,» non sono qui citate, nè io le conosco: e bisognerebbe conoscerle per ragionarne. La Chiesa è tanto guardinga in queste distinzioni di peccati, il suo linguaggio è così gastigato, che importerebbe molto di vedere come abbia potuto discendere a questi particolari, e trattarli con l’autorità e con la dignità che le conviene. A ogni modo, il giusto della Chiesa, nutrito de’ pensieri santi e generosi dell’altra vita, avvezzo a vincer gl’impeti sensuali d’ogni sorte, intento a regolare con la ragione e con la prudenza ogni suo atto; il giusto della Chiesa ha la guardia alla bocca5. Ne’ tempi

  1. Ezech. loc. cit. V. pag. 697.
  2. Cum metu et tremore vestram salutem operamini. Paul. ad Philip. II, 12.
  3. Fidelis autem Deus est, qui non patietur vos tentari supra id quod potestis. Paul. I, ad Corinth. X, 13.
  4. Confidens hoc ipsum, quid qui coepit in vobis opus bonum, perficiet usque in diem Christi Iesu. Paul. ad Philip. 1, 6.
  5. Pone, Domine, custodiam ori meo. Ps. CXL, 3.